1672, LA CATASTROFE DEL GIOVEDÌ SANTO
31 Agosto 2016 / Oreste Delucca
Il 14 aprile 1672 fu un giorno infausto, come ci ricorda Carlo Tonini nelle sue pagine di storia riminese e nelle cronache allegate.
“Correvano l’ore 22 in circa del Giovedì Santo, nel qual tempo la maggior parte della città trovavasi impiegata o in assistere ai divini uffizi, o a visitare i sepolcri, allorché viddesi da settentrione alzarsi in faccia alla città una nuvola di colore assai denso e fosco, quale appena avendo scoppiato in un tuono ottuso, tremò per lo spazio d’un pater noster gagliardamente la terra, con dupplicato moto: il primo fu di polso, sommovendo di sotto a’ fondamenti le fabbriche; il secondo di tremore, a guisa di chi ondeggia in mare. Sì spaventoso fu lo scuotimento, che quasi non è restato edifizio, per forte e ben intero che fosse, che da sì fiera agitazione ed empia non sii rimasto senza notabile offesa”.
Subito dopo si avvertirono esalazioni sulfuree alla marina e un forte vento provocò burrasca, tanto che i marinai sentivano le acque gorgogliare sotto le imbarcazioni, tanto da credere d’essere finiti sopra banchi di sassi. Frattanto il terremoto non cessava, perché dopo breve tempo la terra tremò altre due volte (ed ulteriore sussulto ebbe verso le ore 13). Lo scenario creatosi in città aveva dell’indescrivibile: il crollo degli edifici aveva provocato una tale nube di polvere che le persone appena si vedevano fra loro.
“La maggior parte di quelli che trovavansi per le strade, alcuni quasi accecati dalla polvere e dal timore spaventati, cadevano per terra; altri impalliditi e come fuori di sé cercavano la fuga; né altro udivasi risuonare per l’aria che gemiti, sospiri e singhiozzi, o di fuggitivi atterriti, o di moribondi giacenti. Udivansi le madri e i padri alzar strida inconsolabili cercando i propri figli smarriti; i figli la madre e padre, chi la moglie, chi il marito, chi i parenti; chi lagnavasi della casa diroccata. In somma, ogni cosa era un lagrimevole miscuglio di sciagure. Né fu meno lagrimevole la scena che, dopo svanita la polvere, apparve agli occhi de’ spettatori: qui vedevasi braccia monche, gambe spezzate, a chi spiccata dal busto la testa, a chi sfracellati i piedi, a chi schiacciato il capo, chi affogato dalla polvere, chi mezzo sepolto ne’ frattumi de sassi chiedere mercè; ma invano, onde tanto più tormentava il cuore a’ spettatori il non poter sovenire ed agli oppressi il non poter essere sovenuti”.
Il Palazzo del Comune crollò, con la Torre Civica (seppellendo i carcerati che vi si trovavano); stessa sorte toccò all’antica cattedrale di S. Colomba; la Torre dell’Orologio, nell’altra piazza, restò in piedi, ma talmente fessurata da farne presagire la caduta imminente; moltissime chiese rovinarono con i loro campanili e prima di tutte quella dei Teatini, dove era in atto una funzione e dove si registrò il maggior numero di morti; poi le chiese di S. Giorgio, di S. Bartolomeo, della Colonnella, di S. Simone, di S. Maria in Acumine, di S. Nicola, di S. Innocenza, la celletta di S. Antonio in piazza. Altre chiese rimasero in piedi, subendo però grossi danni, come quelle di S. Agnese, di S. Agostino, di S. Tommaso, dei Servi, della Croce. Crolli o danni ai monasteri, ai maggiori palazzi cittadini e alla maggior parte delle case più modeste. E se qualche edificio risultava ancora in buono stato, era tuttavia inagibile per il timore che quelli vicini gli franassero addosso.
Anche i monumenti dell’antichità classica ebbero a soffrire. L’arco di Ottaviano Augusto ovvero – come lo chiama il cronista – “l’arco di Ottavio ha patito assai e un bastione terrapienato che lo fiancheggiava è dirupato come se fosse scosso da una mina”. La qual cosa faceva il paio coi danni già subiti nel terremoto del 1308. Del ponte di Tiberio non si parla e certamente non fu scosso nella struttura portante (massiccia e robustissima); ma forse patì qualche pena nei paramenti, se è vero che qualche anno dopo il Consiglio chiamò da Roma l’architetto e ingegnere Agostino Martinelli per dirigere i lavori di risarcimento del ponte medesimo.
Quanto al numero dei morti, non si fecero conteggi sicuri: chi azzardò la cifra di 200, chi addirittura di 400, ma stime più credibili fissarono il totale sul centinaio o poco più; a questi naturalmente andavano aggiunti i numerosi feriti. Perirono molti personaggi importanti, fra cui i rappresentanti delle famiglie Diotallevi, Soleri, Pastoni, Rigazzi, Tingoli, Marazzani, Guidi, Arduini, Serafini, Gualtieri. Sopravvisse fortunosamente il vescovo. Stava celebrando in cattedrale al momento della scossa fatale; mentre fuggiva per mettersi in salvo, nel trambusto un fanciullo gli mise un piede sullo strascico della Cappa Magna costringendolo a fermarsi; in quell’istante un gran mucchio di pietre gli cadde innanzi, rasentandolo ma lasciandolo illeso.
“Continuando le scosse, benché assai lievemente, e il sibilo e il rombo, e le case tutte minacciando ruina, niuno de’ cittadini volle dormirvi la notte; ma tutti, chi sulla piazza avanti la rocca, chi ne’ prati fuori delle mura sotto capanne o tende si raccolsero il meglio che seppero; e per molte settimane seguitarono in tal modo.
Il vescovo a piedi ignudi, accompagnato da innumerevole popolo, portò processionalmente il Venerabile Sacramento fuori della città, innanzi al santuario di S. Gaudenzo, pel timore di nuovi crollamenti, e lo collocò sopra un altare che allora si eresse sotto l’aperto cielo”.
Da Ravenna arrivò subito il Vicelegato per dirigere gli interventi necessari, portando con sé una nutrita schiera di soldati con l’incarico di pattugliare le vie e ”impedire i latrocinii, perché si erano trovati cadaveri con le dita tagliate, per rubargli le anella. Dovevano inoltre controllare le porte cittadine per impedire l’accesso di birbanti e vagabondi”; così come dovevano tenere sott’occhio gli edifici per prevenire lo sciacallaggio.
Il 19 aprile, cioè cinque giorni dopo la catastrofe, si riunì il Consiglio Generale, con i membri reperibili, per chiedere aiuti al Pontefice e per approvare un programma “devozionale” che riconosceva nel terremoto il castigo divino inflitto per le colpe della popolazione, ma nel contempo ringraziava Iddio per aver preservato i superstiti da maggior male. Disponeva quindi che il 14 aprile di ogni anno, in perpetuo, si dovesse celebrare un Anniversario religioso comprendente: una Comunione generale, una Processione cittadina ed una Predica onde commemorare l’evento e ammonire i fedeli. Disponeva inoltre: la proibizione, per 12 anni, di balli, tornei, feste in maschera e carnevali; che le donne usassero maggior modestia nel vestire; che ogni 14 aprile si facesse una questua per dotare 4 ragazze dell’Ospedale; che sulle porte della città si dipingessero le immagini dei Santi Protettori, della Madonna e del Santissimo.
La vita cittadina subì ovviamente una generale battuta d’arresto, in tutte le sue manifestazioni. Prova ne sia la vicenda della vedova di Giovanni Diotallevi, perito nel crollo dei Teatini. La donna, secondo le norme statutarie, avrebbe dovuto compilare l’inventario dei beni domestici entro cinque giorni dalla morte del marito. Chiese ed ottenne una proroga dalle autorità cittadine, riuscendo a stilarlo (tramite il notaio Simone Ugolini) solamente il 17 giugno.
Le scosse del terremoto continuarono a sentirsi per cinque mesi, quantunque con intensità decrescente. E non solo in città. Dei 36 castelli dipendenti da Rimini, solo 10 rimasero illesi; e in campagna le case ebbero duramente a soffrire, costringendo la gente a dormire sotto baracche, padiglioni ed altre strutture fabbricate all’occorrenza, anche per ospitare molte persone provenienti dalla città.
Per contribuire alla ricostruzione il Pontefice, dopo un aiuto immediato di 1.000 scudi, ne stanziò altri 15.000. Concesse inoltre per tre anni la riduzione di due terzi dei Pesi Camerali e la dilazione di sei anni nell’estinzione di certi debiti; il che portò i benefici papali alla cifra effettiva di circa 45.000 scudi. Una successiva ulteriore elargizione di 13.000 scudi aumentò il totale dei contributi a 58.000 scudi. Senonché i danni reali furono stimati in 142.000 scudi nella città, oltre a 18.000 nel territorio. Pertanto il recupero fu lento e sofferto; gli interventi di ricostruzione e riparazione piuttosto approssimativi: le conseguenze funeste le vedremo manifestarsi nei terremoti successivi.
Oreste Delucca