Il 22 febbraio la Chiesa celebra la festa della Cattedra di San Pietro.
Dal Vangelo secondo Matteo: «In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti”».
«Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”».
«E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”».
Su questa frase si fonda tutta la Chiesa cattolica. Sono queste le parole che giustificano l’autorità del vescovo di Roma su tutti gli altri e non a caso uno dei primi a sottolineare l’importanza della festa fu un pontefice, San Leone I, nel V secolo: «Noi dobbiamo celebrare la festa della Cattedra di S. Pietro con la stessa gioia con cui celebreremo il martirio del Principe degli Apostoli. Con ciò noi richiamiamo alla memoria contemporaneamente e la sua entrata in cielo, e l’innalzamento alla dignità di primo pastore della Chiesa militante».
La festa era era già osservata nel III secolo. In origine corrispondeva all’insediamento di Pietro a vescovo di Antiochia, mentre la ricorrenza del suo magistero a Roma era commemorato il 18 gennaio, come ancora oggi si fa nel calendario ambrosiano. La data di febbraio riprendeva alcuni aspetti dei Feralia, festa romana dedicata ai morti: a conclusione dei Parentalia, nove giorni fino al 21 febbraio, si dovevano portare (in latino, ferere) sopra un vaso di argilla piccoli doni sulle tombe dei propri antenati defunti: ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto nel vino e viole sciolte.
La Cattedra di San Pietro è anche un oggetto concreto: un trono ligneo con decorazioni in avorio (qualcuno vuole siano quelle originali degli imperatori romani) che durante il medio evo fu identificato con la cattedra vescovile appartenuta effettivamente all’apostolo. In realtà quello che si conserva fu donato nell’875 dal re dei Franchi Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII quando giunse a Roma per farsi incoronare imperatore. Il trono è nella basilica di San Pietro, inglobato in una grandiosa composizione barocca progettata da Gian Lorenzo Bernini e realizzata fra il 1656 e il 1665 (nell’immagine in apertura).
La scarana ad San Pir ha inevitabilmente suggestionato per secoli i Romagnoli, se non altro perché a quel trono furono soggetti, più o meno direttamente, per qualcosa come 1.106 anni: dalla Donazione di Pipino del 754 al 1860.
“E’ Pepa l”è un servitor in tera de Signor”, il Papa è il servitore in terra del Signore. “Qvel che fa in tera e’ Pepa, e’ Signor in zil ul scriv s’na cherta”, Quello che fa in terra il Papa, il Signore in cielo lo scrive sulla carta: traduzioni in vernacolo di quanto solennemente proclamato dalla Cattedra.
Da cui la prescrizione (e pare di udire la voce del parroco che sa farsi comprendere dai suoi fedeli): “E’ vost oblig sudisfè se a vlì, tot i dè patèr pr’e’ sent puntefic avè a dì”, se volete soddisfare al vostro obbligo tutti i giorni dovete dire un padrenostro per il Santo Pontefice.
Il popolo prende atto e osserva: “E’ Pepa l’è un Dio in tera, senza ad lo ugn’è ne pesa ne guera”, il Papa è un Dio in terra, senza di lui né pace né guerra”. Ma anche: “Una volta i Pepa sent j era, tre volti a la stmâna cun Dio i dscureva, ades i’n dscor piò mo, parchè di sent Pepa u n’i n’è piò”, una volta i Papi erano santi, parlavano tre volte alla settimana con Dio, adesso non gli parlano più perchè di Papi santi non ce n’è più.
E poi, minacciosamente: “E’ Pepa e’ vo cmandè, basta che la zenta il lasa fè”, il Papa vuole comandare, basta che la gente lo lasci fare. E il mangiapreti arrabbiato annunciava: “A vag a servì e Pepa”, vado a servire il Papa, quando si recava al gabinetto.
“T’ci cumè Pepa Sest, c’un parduneva gnenca a Crest”, sei come Papa Sisto che non perdonava nemmeno Cristo: ricordo indelebile del grande Papa Sisto V e dei suoi cinque intensissimi anni di pontificato (1585-90). Passato alla storia per la sua equanime inflessibilità, del terribile marchigiano di Grottammare si raccontava che presentatogli un crocefisso miracolosamente sanguinante, senza indugio lo fece a pezzi per vedere cosa conteneva, esclamando: “Come Cristo ti adoro, come legno ti spacco”, svelandone l’impostura. Episodio ricordato anche da Gioacchino Belli ancora due secoli dopo: “Fra ttutti quelli c’hanno avuto er posto/ De vicarj de Dio, nun z’è mai visto/ Un papa rugantino, un papa tosto/ Un papa matto uguale a Ppapa Sisto/ E nun zolo è da dì che dassi er pisto/ A chiunqu’omo che j’annava accosto/ Ma nu la perdunò neppur’a Cristo”.
E’ scaranett de Pepa, il seggiolino del Papa, era un gioco dei bambini: almeno in due ci si afferrava per i polsi intrecciati e vi si faceva sedere sopra un terzo, che poi veniva lanciato in aria. Avendo “una muliga ad giudizie” lo si praticava sulla paglia, o nelle acque basse del mare.
Fe’ Pepa ma un, fare Papa qualcuno: Gianni Quondamatteo: “Gioco piuttosto pesante che si faceva da ragazzi: tutti contro uno, che veniva immobilizzato a terra e, a butèga verta (a “bottega” cioè patta dei pantaloni, aperta), sputi, erba e terriccio andavano a far compagnia all’uccellino della vittima”. Oggi si chiama bullismo.
E ancora: “Nell’invocazione, assurda e scherzosa, del contadino frastornato e stanco dei troppi bambini in casa: che i burdell i foss fett comè i pepa”, che i bambini fossero fitti come i papi! Oggi l’invocazione “assurda” parrebbe esaudita.
22 febbraio 1566 – Nasce a Rimini la Strada Nuova, oggi via Castelfidardo