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6 ottobre 1547 – Giorgio Vasari a Rimini, ospite di un Frate Bianco dal tragico destino


6 Ottobre 2023 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Nel novembre 1545 Giovan Matteo Faitani, Abate di Santa Maria Annunziata di Scolca, chiede al pittore aretino Giorgio Vasari di realizzare una grande pala per l’altar maggiore della chiesa abbaziale riminese. Faitani ha sviluppato uno stretto rapporto d’amicizia col Vasari, anche se non sappiamo da quando e in quali circostanze tale relazione sia nata. Il contratto definitivo, che prevede esplicitamente la presenza del pittore sul posto, viene stipulato a Firenze il 9 agosto 1547; Vasari parte per Rimini fra la fine di settembre ed i primi di ottobre dello stesso anno.

A quel tempo ha ormai pressoché terminato la prima stesura dell’opera che gli darà gloria ben più duratura dei suoi dipinti: “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”; il Faitani doveva averlo allettato mettendogli a disposizione i suoi monaci amanuensi per vergare in bella copia il manoscritto definitivo, forse già in più esemplari; la correzione del testo sarebbe stata compiuta personalmente dallo stesso Abate.

La pala del Vasari (nell’immagine in apertura) terminata nella primavera del 1548, la splendida “Adorazione dei Magi”, restaurata dalla Fondazione Carim, è ancora al suo posto sull’altar maggiore della chiesa che i Riminesi chiamano oggi di San Fortunato. Mancano però i pannelli laterali, scomparsi e poi quasi miracolosamente recuperati dallo storico dell’arte Carlo Falciani, come lui stesso ha illustrato nel marzo 2015 durante l’incontro «Pontormo e Bronzino tra pittura e scultura e un omaggio a Giorgio Vasari “riminese”».

Giorgio_Vasari

Autoritratto di Giorgio Vasari

Nell’edizione definitiva delle Vite (la cosiddetta Giuntina, del 1568) e anche nella sua autobiografia, Giorgio Vasari sembra però glissare sui rapporti che ebbe con l’Abate Faitani. Eppure è documentato che il Riminese non fu per il pittore solo un committente, e più di una volta, ma un amico a cui si rivolgeva in tono confidenziale e molto probabilmente il suo “informatore artistico” per la Romagna.

Né Giovan Matteo Faitani era un Abate qualsiasi. Aveva fatto una carriera fulminea nell’ordine benedettino di Monte Oliveto che aveva il suo centro a Siena, di cui era già stato Vicario Generale. Era stato nominato Abate nella sua città proprio al termine di quel mandato e aveva mantenuto il titolo, contro ogni consuetudine dei “Frati Bianchi”, per ben 13 anni consecutivi. Eppure negli scritti vasariani il Faitani diventa poco più di una comparsa.

Come mai?

Frontespizio dell'edizione Giuntina delle Vite

Frontespizio dell’edizione Giuntina delle Vite

Il futuro monaco era nato a Rimini tra il 1505 e il 1506 da Matteo e Bartolomea Veneri; fu battezzato con il nome di Pandolfo e aveva due fratelli: Giorgio, di due anni maggiore, e Giulio, più piccolo.

Il 19 maggio 1527 nello stesso convento di S. Giorgio di Ferrara dove già aveva compiuto il periodo di noviziato, fa professione di vita monastica nella Congregazione benedettina olivetana, assumendo il nome di Giovan Matteo e trascorrendo poi un biennio studio nella casa madre di Monte Oliveto Maggiore a Siena.

Nei dieci anni successivi la sua ascesa è rapidissima, fino a portarlo ai vertici dell’ordine. «Tuttavia – scrive Maria Silvia Campanini nel Dizionario Biografico Treccani – dopo questo brillante giro di anni – un cursus honorum che lasciava intravvedere la possibilità di una rapida ascesa al generalato – la carriera del F. cominciò a segnare stranamente il passo. Difficile sottrarsi all’impressione di un allontanamento progressivo dai vertici della gerarchia, di una specie di dorato esilio riminese – almeno in parte condizionato anche da gravi motivi di salute – per un personaggio che nel frattempo era forse diventato di ostacolo alla linea politica dominante all’interno della Congregazione. Un accenno di ripresa sembrò profilarsi nel biennio 1555-57, quando il F. era nuovamente abate visitatore, ma si trattava di un recupero di breve durata».

Faitani è insomma caduto in disgrazia, ma non sappiamo il perché. Fatto sta che per quattro anni le carte tacciono su di lui. Quando riemerge, è un semplice monaco a S. Angelo di Gaifa presso Fermignano: un monastero (oggi scomparso) del tutto periferico, dove peraltro lui era già stato, ma da Abate: un ritorno che ha tutta l’aria di un provvedimento disciplinare.

La chiesa di S.Stefano di Gaifa, presso la quale probabilmente sorgeva lo scomparso monastero di S. Angelo

La chiesa di S.Stefano di Gaifa, presso la quale probabilmente sorgeva lo scomparso monastero di S. Angelo

Ma la discesa agli inferi del Frate Bianco riminese è solo agli inizi.

Abate di Gaifa è a quel tempo il giovane don Tommaso Casarossi, anche lui di Rimini. Nel 1567 il Faitani uccide il confratello e concittadino. Per questo assassinio viene giustiziato a Gubbio. Di nuovo, «è impossibile far luce definitiva sulle circostanze del delitto a causa dell’omertà delle fonti, in particolare quelle interne alla Congregazione». Però, aggiunge il Dizionario, in un documento coevo «si legge anche un implicito accenno al movente del delitto, che s’intuisce connesso a feroci lotte per il potere, a vecchi rancori e rivalità interne al microcosmo monastico, sottratte purtroppo a una qualsiasi verifica storica».

Una fine tragica e poi sepolta nell’oblio, per chi era stato tanto potente da aver rapporti di particolare familiarità con papa Giulio III. E letterato tanto ambizioso non solo da comporre in latino e in volgare (non opere memorabili, da quanto ne rimane), ma addirittura da sentirsi degno di aggiungere di suo pugno due canti supplementari all’Orlando furioso di Lodovico Ariosto. 

Quanto di questa storia tragica e misteriosa avrà contribuito a Rimini a comporre la torbida leggenda dei Frati Bianchi? A fine Settecento l’Abate di Scolca scendeva su Rimini a rotta di collo con un “tiro a sei”, una carrozza trainata da sei cavalli: l’equivalente di una Ferrari di oggi. Quell’abbazia rben fornita di rendite, lassù nel più bel sito che si possa desiderare, su colli floridi di vigne e uliveti. E tuttiquei monaci, tutti gran signori per nascita e pochi in cella per vocazione. Le cronache dei contemporanei, anche se fra i più timorati, grondano di invidia e della più malevola.

Le grotte  scavate nel sabbione di Covignano che si diramano dappertutto intorno all’abbazia (c’è chi giura arrivino nel sottosuolo del pieno centro di Rimini), diventano allora per il popolo lo scenario di orridi delitti contro inermi fanciulle rapite nottetempo. I pozzi custodiscono i poveri frutti degli amori inconfessabili.

E lì da qualche parte i Frati Bianchi hanno sepolto il loro tesoro maledetto, frutto di rapine ai viandanti commesse per puro e sadico divertimento per poi eclissarsi nelle loro grotte. Tanti lo hanno cercato, ma nessuno può scoprirlo. Ed è bene che sia così, perché chi lo trovasse, anche lui sarebbe perduto per sempre.