Home___primopianoE a Rimini il folle Luciano si lanciò nel salto con l’asta della fogheraccia

Quando ogni via aveva la sua e già dalla metà di febbraio si iniziava a raccogliere la legna che avrebbe dovuto ardere nella notte di san Giuseppe


E a Rimini il folle Luciano si lanciò nel salto con l’asta della fogheraccia


23 Marzo 2024 / Enzo Pirroni

Ogni anno all’appressarsi dell’equinozio di primavera, vivo nell’attesa di un’improbabile ierofanìa e mi trovo, nella notte del 18 marzo a vagolare da borgo a borgo nella speranza di imbattermi in una di quelle colossali “fogheracce” che, nella mia fanciullezza rappresentavano l’appuntamento più importante dell’intero calendario.

Già dalla metà di febbraio si iniziava a raccogliere e ad accatastare la legna che avrebbe dovuto ardere nella notte di san Giuseppe. Raggruppati in schiere, noi bambini, effettuavamo pellegrinaggi per giardini abbandonati e disfatti, penetravamo nei muffosi cortili, violavamo le recinzioni di poveri orti suburbani, ci immergevamo dentro intricati canneti, ci avventuravamo nei profondi fondachi ed maleodoranti cantine alla ricerca di strumenti scassati, mobili dismessi, vecchie riviste, traversine ferroviarie, potature di salici, copertoni di camion e quant’altro potesse prender fuoco o quantomeno sprigionare fumo.

Per giorni e giorni la “cerca” continuava minuziosa nella squallidezza degli immondezzai o nella solitudine della splendente battigia col vento tramontanino che scarruffava un ancor gelido mare. Ovunque, in ogni crocicchio o in anguste piazzette l’architettura pencolante della “fogheraccia” si ergeva sempre più  alta quasi a voler sfidare l’ordinamento cosmico: per una volta gli uomini, che faticavano durante l’intera loro vita sulla avara terra, sfidavano, onorandoli, gli dei abitatori dei vasti cieli.

E’ impresa difficile quella di non smarrirsi nella jungla di miti, simboli che vanno dalle divinità preolimpiche, come la grande dea trimorfa, alla dottrina delle due nature. Le due nature sono la Luce e la Tenebra, dualisticamente concepite come il Bene e il Male. In basso, sulla terra,  si colloca la difficoltà del vivere, il dolore, la fame, la malattia, la morte, più sotto ancora c’è l’Inferno, l’Ade, la Geenna, lo Sheal. L’asse che segue l’allestimento della “fogheraccia” è l’asse spazio-verticale: Zenit – Nadir. In alto, al di sopra delle nuvole, nei cieli infiniti, tra gli astri, si colloca il Paradiso, la Gerusalemme celeste. Verso il cielo, verso tali luoghi  si dirigono le fiamme ed il fumo che sale lentamente, col suo acre profumo di fuoco e di resine, altro non è se non un messaggio, un dono inutile fatto dagli uomini al dio, quasi a volergli rammentare lo stato di precarietà nel quale versano tutti i bipedi abitatori della terra, per il resto, del tutto uguali a lui.

In questa vertigine interpretativa sfilano echi lontani, relitti di usi riflessi nei secoli, residui culturali di popoli diversi – latini, etruschi, fenici, umbri, celti, greci, piceni,  liguri, reti, camuni, osci ed altri ancora. Nel fuoco, che segna la fine dell’inverno e la rinascita della terra, si mescolano sublimandosi i millenni della nostra penisola e non solo.

Ma per tornare a quella notte, carnevalesche brigate con faci e luminarie percorrevano le vie tra scoppi di mortaretti (le botte con potassio e zolfo); sostavano per qualche tempo nei pressi del grande falò, quindi con clownesca stolidità se ne andavano tra lazzi schizoidi e laidi cori. Ma per tutti noi che con la pelle arsa e gli occhi arrossati ci ostinavamo a restare in prima fila, attenti ad ogni crepitio, ad ogni segno anomalo di combustione, ad ogni mutare del vento c’era la tensione dell’attesa. Sapevamo che da un momento all’altro, sarebbe apparso qualcuno che, con un’azione provocatoria avrebbe osato sfidare il fuoco. Sapevamo che da un momento all’altro, sarebbe giunto un eroe il quale, avrebbe osato mescolarsi al fumo, arrischiandosi ad aspirare il soffio ardente di un’altra vita, rifuggendo, con un simile gesto, la consapevole precarietà di una vile esistenza per conquistarsi, grazie a tale impresa gloriosa, un legame con il tempo.

Luciano Canarecci o Canareccia o Canarezza, non ricordo bene, era un “dispari”, uno di quei personaggi, “tutto senso e stupore”, pieni di forza e di coraggio ma con un cervello che non trovava consolazione né gioia se non nel far mattie. Forse, abbindolato dalle sinuose algarbie, dalle mielate proposte di maturi falsi consiglieri, Luciano, mentre ancora alto sfavillava, nella nera notte, il grande diadema di ignea bellezza, dopo essersi procurato un lungo, robusto bastone, si accinse al più spettacolare dei balzi.

Questo esercizio ha origini che si perdono nella notte dei tempi. Molto probabilmente nacque per esigenze pratiche, allorché i pastori del mesolitico pensarono di ricorrere all’aiuto di lunghe e solide pertiche per superare barriere, acquitrini, corsi d’acqua ed altri ostacoli. Gli antichi greci ne fecero uno sport, chiamandolo “salto in alto con la pertica”, definizione che immutata si trova ancor oggi nell’idioma tedesco (Stabhochsprung). Sicuramente tra tutte le specialità contemplate dall’atletica moderna, il salto con l’asta è la più spettacolare, tuttavia, la maggior parte degli esperti concorda nel ritenerla la più difficile da apprendere.

Forse, in qualche Settimana Incom, o sfogliando le pagine di “Sport Illustrato”, Luciano aveva visto Bob Gutowski volare, abbarbicato alla sua asta di fiberglass (la fibra di vetro era stata utilizzata per la prima volta dal greco Georgios Roubains ai Giochi Olimpici di Melbourne, nel 1956) e pertanto lo volle imitare. Con la fulminea demenza di un primate, urlando e dirugginando i denti nella tensione dello sforzo, dopo breve rincorsa, si vide Luciano librarsi oltre le fiamme per poi addentrarsi, in preda alle  convulsioni della sua improvvisa pazzia tra l’acre fumo.

Sopra gli spettatori che fino allora avevano assistito allo spettacolo del fuoco con distacco raziocinante, tra le vecchie di nero vestite che, in attesa di raccoglier le braci da riporre nello “scaldino”, alzavano la mano a protezione degli occhi, tra i fanciulli ruzzanti, sopra le torpide matrone assise in catalettica rigidità quaresimale, su seggiole dal fondo impagliato, per un attimo si posò l’orrore. Tutti furono afferrati da una terribile paura.

Fortunatamente la forsenneria aveva prodotto, nel giovane saltatore, solamente lievi danni. I capelli risultavano bruciacchiati al pari delle sopracciglia, il volto era annerito dal fumo e su tutto il corpo si evidenziavano i segni di non gravi ustioni. Condotto all’ospedale vecchio, Guerrino Agnoletti, antico oltre che abilissimo infermiere, provvide a medicarlo, mentre Luciano, come se niente fosse accaduto, con un sorriso disarmante evidenziava, per una volta di più, la misura della propria stolidezza, vantandosi dell’impresa, senza palesare il menomo sconcerto del volto o dell’anima.

L’indomani si sarebbe disputata la Milano-Sanremo. La Classicissima di Primavera di quell’anno, vide il successo di Rik Van Looy. Tuttavia, l’eroe di quella giornata fu il combattivo René Privat, il quale, dopo essere stato in fuga per duecentosettantaquattro chilometri venne ripreso a San Lorenzo, ad un tiro di schioppo dall’arrivo. Soffrii allorché appresi, alla radio, che il bravo ciclista francese era stato raggiunto. Privat ebbe modo di rifarsi nell’edizione del 1960 quando, pedalando ad oltre quarantadue di media, lasciò i suoi sette compagni di avventura sulle rampe del Poggio (era il primo anno che si effettuava la scalata di questo ultimo colle) e buttandosi a tomba aperta nella tortuosissima discesa tagliò il traguardo a braccia alzate. Nella Sanremo di quest’anno mancherà il Turchino. Parlare di decadenza è doveroso.

Enzo Pirroni

(Nell’immagine in apertura: la “fogaraccia” in Amarcord di Federico Fellini)