Home___aperturaVitali, l’ultimo negozio di cappelli a Rimini: “Mi considero un sopravvissuto”

L'indispensabile accessorio maschile era uno dei vanti per la moda italiana

Humphrey Bogart

Vitali, l’ultimo negozio di cappelli a Rimini: “Mi considero un sopravvissuto”


9 Giugno 2023 / Enzo Pirroni

Quello di Marco Vitali e figlio è l’unico e ultimo negozio di “cappellaio” esistente a Rimini. Il padre dell’attuale proprietario, si era trasferito da Saltara, un paese in provincia di Pesaro, nella nostra città nel 1925 ed aveva aperto una cappelleria in Corso d’Augusto.

Negli anni venti l’Italia esportava in tutto il mondo circa dodici milioni e mezzo di cappelli da uomo di feltro ed oltre undici milioni di cappelli di paglia o di truciolo. Complessivamente le aziende italiane produttrici erano oltre un migliaio con più di ventimila dipendenti.

Dalla metà degli anni ’50 – diceva, anni fa,  Marco Vitali – si è assistito all’inarrestabile declino di questo capo che fino a quel momento aveva rappresentato un punto fermo ed assolutamente indispensabile in qualsiasi guardaroba maschile. Un po’ alla volta i vecchi cappellai riminesi cedettero la mano. Sparirono antiche botteghe. Chiusero i battenti i negozi prestigiosi di Angelini, Pieroni, Bartoli, Crostelli. Sono rimasto io. Mi considero un sopravvissuto“.

Mentre parlavamo, il signor Vitali mi mostrava i suoi tesori e lo faceva con pudore e con estrema parsimonia. Da un alto scaffale posto in un angolo oscuro del negozio estrasse un bellissimo feltro: “Questo – mi disse – è un Hunkel di Vienna. E’ di “velour” di pelo di lepre lungo e fine. E’ vecchissimo. Oggi cappelli di qualità simile non si fanno più“.

Quindi davanti ai miei occhi passarono in rassegna, uno dopo l’altro i modelli “piuma”, leggerissimi e pieghevoli che potevano essere contenuti benissimo nel fondo di una tasca, gli enormi cappelli da cow-boy, i classici “Dobbs” e le svariate forme che la moda indocile ha creato nel corso degli anni, ora cambiando le dimensioni, rialzando o abbassando la tesa, elevando o riducendo il cocuzzolo.

I centri principali della produzione dei cappelli di feltro in Italia – continuava il gentilissimo signore che mi faceva da maestro – sono, ma sarebbe più corretto dire erano, ad Alessandria, Monza, Biella, Intra, Voghera, Sagliano Micca, Spinetta Marengo, Alzano Maggiore, Montevarchi, Cremona, ma un po’ dovunque, fino a prima dell’ultima guerra, esistevano piccole industrie che realizzavano ottimi prodotti. In Italia, tuttavia il dominio assoluto lo detiene la ditta Borsalino”.

Giuseppe Borsalino, il capostipite, emigrò in Francia verso il 1840. A Parigi si perfezionò nell’arte della cappelleria e dopo lunghe peripezie tornò in Italia nel 1857. Ad  Alessandria, in Piazza S. Lucia aprì il suo primo laboratorio con annessa vendita. L’azienda prosperò e ben presto, il marchio Borsalino divenne famoso in tutto il mondo. Giovanni Giolitti portava esclusivamente cappelli di questa marca, ed un Borsalino grigio aveva in capo John Dillinger, allorché fu ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia americana, nel maggio del 1934.

Al Capone, nei momenti di massimo splendore, si faceva confezionare espressamente dalla ditta piemontese, i copricapo per sé e per i più fidati “boys”. Pretendeva che i feltri fossero di pelo di castoro mishiato a quello di coniglio “garenne”. Il “marocchino”, ovvero  quella striscia di pelle che cinge internamente il cappello, doveva essere di capretto, e dovevano provenire da Liegi, in Belgio. Il  nastro invariabilmente di raso e la fodera di seta completavano il capolavoro. Un vero elegantone.

Altri marchi prestigiosi portano i nomi di “Panizza”  e di “Barbisio”. Il signor Vitali, mi diceva, tra l’ altro, che il patrono dei cappellai è S. Giacomo il Maggiore, detto anche di Compostella, il quale si festeggia il 25 di luglio. Storicamente della prima corporazione di “Chapeliers” si ha notizia in Francia già dal 1229. In Italia c’erano a Venezia, nel 1280, degli statuti che parlavano di: “homines artis cappellariorum” che facevano parte della affine arte dei lanaioli.

Se volessimo riandare a quanto Roland Barthes, scriveva nel suo esemplare saggio del 1967, “Sistema della Moda”, potremmo giustamente ricordare che il codice vestimentario presenta parecchi livelli di lettura o di intelligibilità e che i vari indumenti orientano la percezione ed inviano dei messaggi. Speciali cappelli, di particolare foggia e colore, vennero imposti in tempi passati agli ebrei, ai lebbrosi, ai folli, alle adultere, il cilindro bassissimo, di colore chiaro era il copricapo che caratterizzava gli “scapigliati”, così come l’ampio feltro nero, in voga nelle Romagne, mandava chiari segnali di rivoluzionarismo ed anarchia.

D’altra parte, ancor oggi la “feluca” contraddistingue gli alti personaggi: ammiragli, ambasciatori, particolari copricapi come la “mitra”, “la tiara” , il “triregno” il “cappello con le nappe”, il “tricorno”, lo “zucchetto” sono di difficile attribuzione per tutti coloro i quali non siano pienamente addentro allea complessa gerarchia ecclesiastica.

Mi ricordo che uscii dal negozio di via Bertola ed entrando nel solito, vecchio, malandato bar, dove conosco tutti e da tutti sono conosciuto, dopo aver ordinato al banconiere, un amico di vecchia data, il solito caffè, distrattamente cercai Sam seduto al pianoforte. Le note di “The time goes by” inondarono il locale ed io aspettavo che entrasse, con il cappello calato sugli occhi e l’immancabile “Camel” all’angolo della bocca, il vecchio Humphrey Bogart. Attesi invano. Ci proverò ancora.

Enzo Pirroni