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Alle pagine stupide e provocatorie sarebbe molto meglio non rispondere con le invettive e le carte bollate, ma con contenuti digitali più spiritosi e intelligenti

Se il mare di Rimini è veramente riminese, l’ironia social gli fa un baffo. Non se la tira, si piace con i suoi pregi e i suoi difetti, se ne infischia di non essere cristallino come quello della Sardegna o delle Seychelles, e non dà agli immeritevoli umani in vacanza di credersi in un paradiso terrestre incontaminato, in cui riposarsi della fatica di inquinare il pianeta nel resto dell’anno. E se qualche leone da tastiera lo deride, lo chiama sporco o inquinato, o lo pubblica foto fake, com’è accaduto nelle scorse settimane, il nostro mare scrolla un po’ le sue onde e torna ad accarezzare la spiaggia più accogliente e organizzata d’Italia e forse del mondo. Con le sue centinaia di millenni sulle spalle, lui conosce già la prima legge dei social, “don’t feed the troll”, non dare corda al diffamatore digitale. Raccogliere la sua sfida è il modo più sicuro per trasformare la shitstorm in un uragano di cui si uscirà peggio di come ci si è entrati. Perché il troll, a differenza della sua vittima, si nutre delle sue reazioni, anzi, ne è ghiotto; inoltre non è mosso dal risentimento, che rende antipatici e poco brillanti, ma semplicemente

Piccoli appartamenti affacciati su un giardino comune e provvisto di laboratori e sala da ballo, con la mutua assistenza di una comunità

C’è chi per la vecchiaia sogna di trasferirsi alle Canarie, chi di ritirarsi in campagna, chi di salire su una nave da crociera e di scenderne solo con i piedi in avanti dopo aver fatto non so quanti giri del mondo. Anch’io ho il mio sogno per la terza età: vivere in un social housing per donne dai 50 anni in su, come quello di cui parla un articolo sul quotidiano inglese The Guardian. L’idea è nata da un gruppo di signore londinesi, che qualche anno fa hanno escogitato e realizzato, col sostegno pubblico, New Ground, un progetto abitativo fatto di piccoli appartamenti affacciati su un giardino comune, e provvisto di laboratori e sala da ballo. Qui possono venire a vivere, pagando un affitto più che ragionevole, donne sole anziane (in Inghilterra sono la stragrande maggioranza della popolazione over 60). Vedova, separata o single per scelta, ogni inquilina di New Ground può avere la sua privacy e al tempo stesso contare sulla solidarietà e la mutua assistenza di una comunità, che offre anche momenti di creatività con corsi di pittura o di recitazione, feste ed eventi mondani cui invitare figli, fratelli o fidanzati. Le signore si autogestiscono: divise in apposite squadre, si

Ma perchè la Madonna deve volere un'anima?

Ferragosto 2023 è già stato bell’e archiviato, ma io continuo a rimuginare su un’inquietante rivelazione che ha gettato una luce sinistra sulla festa di fine estate. Sapevo da tempo che i riminesi in quel giorno tendono a disertare la spiaggia, e avevo sempre attribuito l’abitudine alla scocciatura per l’affollamento di turisti: noi il mare ce l’abbiamo sempre, possiamo permetterci di evitare il carnaio per ventiquattr’ore. Le riminesi poi fino a qualche decennio fa avevano un motivo più stringente per rispettare il coprifuoco ferragostano, ovvero i branchi di giovani energumeni che sul lungomare e dintorni prendevano di mira le ragazze e i passanti in genere con molestie e gavettoni. Questo malcostume è andato diminuendo fin dall’alba del nuovo millennio, forse perché anche le mode più inutili e cretine non sono eterne, forse per l’aumento dei controlli da parte delle forze dell’ordine; fatto sta che negli ultimi anni di gavettoni in spiaggia a Ferragosto se ne segnalano pochissimi, e difficilmente gli autori la passano liscia. Non vi dico il mio stupore alla scoperta che il tabù dell’ombrellone e soprattutto dal tuffo in mare il 15 agosto ha ben altra origine. E nemmeno vi dico lo stupore dei miei interlocutori riminesi vedendomi stupita: ma

Nemmeno il ministro Lollobrigida avrebbe niente da ridire: questa locusta è un’eccellenza locale, con lo ius sanguinis e tutto il resto

«La mente è il più capriccioso degli insetti: svolazza inquieta, si agita, batte le ali», diceva Virginia Woolf. Teoria affascinante, che spiegherebbe perché ci sembra così spesso che i pensieri nella nostra testa siano fastidiosi come uno sciame di moscerini. Sotto questo profilo, tutto ciò con cui tentiamo di silenziare la mente (dall’intrattenimento consumistico alla meditazione alle droghe) è un po’ l’equivalente della ciabatta o dello zampirone. L’ipotesi Woolf ci suggerisce anche un’altra interpretazione della generale ripugnanza rispetto alle farine di insetti: si profilerebbe una specie di cannibalismo. Ma a quale delle innumerevoli specie di insetti appartiene la tua mente? È una vespa che fa tanto chiasso ma non produce niente se non spiacevoli punture, o una zanzara tignosa e sempre in cerca di vene da succhiare? È una mosca che tende a posarsi solo sulle schifezze o una variopinta farfalla che va di fiore in fiore ma rischia di finire infilzata in una bacheca? Oppure – e veniamo alla stretta attualità - è una cavalletta che si muove in uno sciame, e quando non salta di qua e di là è sballottata dal vento e produce disastri? In fondo il comportamento dei nugoli di cavallette non è poi molto diverso da

Bzrbie ripropone il dibattito quando sostituisce le scarpine scomodissime con un paio di Birkenstock basiche

Non sono la persona più adatta a fare l’opinionista di fashion, il mio guardaroba è composto per tre quarti di roba pescata nelle bancarelle outlet e/o vintage del mercato. E me ne vanto, come ogni vera riminese che non rinuncerebbe mai al brivido da cacciatrice che dà ravanare in mucchi di vestiti in cerca della griffe in incognito a prezzo stracciato. Per le scarpe invece ho anch’io qualche pretesa, cresciuta con l’aumentare dell’età: dai quarant’anni in poi i piedi non ti perdonano più nulla, soprattutto le calzature scomode e/o di materiale scadente. E, dopo i denti, i piedi sono la parte anatomica più intransigente e spietata nell'imporre aut-aut che richiedono interventi immediati, quasi sempre contro il senso estetico. Le mie estremità, ad esempio, mi hanno imposto di abiurare i già modesti tacchi che portavo ogni tanto, le scarpe a punta e le suole non ammortizzate. Scarpe da ginnastica 365 giorni all’anno, dunque? No, perché i miei piedi e i miei occhi sono d’accordo su un solo punto: mai sneakers, se non in contesti sportivi (nel mio caso decisamente improbabili). Non c’è una ragione precisa, ce ne sono di elegantissime e costose, che ti fanno camminare sulle nuvole, che stanno bene anche

Più divampa la guerra fra ecoscettici ed ecoterroristi, meno probabiità ci restano di cavarcela

Lo dicevano che il Covid avrebbe lasciato conseguenze a lungo termine sul nostro cervello. Si temeva un’anticipazione dell’insorgenza del morbo di Alzheimer o di un incremento del Parkinson, e invece, sorpresa, si tratta di una degenerazione cerebrale di altro genere, che possiamo chiamare STSR4, Sindrome da Talk-Show di Retequattro. È un mix di complottismo, negazionismo (della scienza ma anche dell’evidenza) e monomania passivo-aggressiva, sviluppato nei laboratori Mediaset, ma non estraneo a quelli della 7 e di Raitre, e diffuso attraverso i programmi televisivi al tempo dei battibecchi sui vaccini. Terminata la pandemia è sopravvissuto, anzi prosperato in gran parte dell’opinione pubblica, e oggi influenza, anzi, deforma, la comunicazione rispetto alla nuova emergenza, il cambiamento climatico. Gli stessi che sostenevano che il Covid fosse una semplice influenza gonfiata dolosamente dai poteri forti e i vaccini una cospirazione di Big Pharma e di Soros con il doppio scopo di riempirsi le tasche e sterminare la razza bianca, oggi applicano lo stesso schema di (ehm) pensiero all’aumento di fenomeni atmosferici estremi e all'altalena di calura e grandinate che caratterizza le ultime estati. Secondo i malati di STSR4, gli stessi supercattivi che volevano spazzare via i bianchi con Moderna e AstraZeneca e non ci sono riusciti (anzi),

Chissà se qualcheregista farà mai un film sul clone italiano della bambola più famosa del mondo

Era una Notte Rosa più rosa di quella celebrata a inizio mese quella che si è vista venerdì sera al multiplex delle Befane, dove si celebrava la prima di Barbie, attesissimo film di Greta Gerwig dedicato alla mini-pin up che ha allietato l’infanzia di milioni e milioni di bambine, me compresa. Non si contavano gli outfit a tema, in tutte le sfumature del rosa, naturalmente, sfoggiati non solo da ragazzine, ma anche da qualche signora più agée (per me è stata l’occasione di tirar fuori borsa e sandali “hot pink”, un abbinamento osabile solo per la première di un film su Barbie). Non so quante teenager abbiano potuto davvero sognare con Barbie: quando le mie figlie erano piccole la bambola Mattel era già un giocattolo di retroguardia, quasi della categoria che oggi si chiama “educational”: la smagliante indossatrice diciottenne delle origini (così l’aveva pensata nel 1959 la sua inventrice, Ruth Handler) in sessant’anni si è cimentata in qualunque professione, dalla veterinaria alla presidente Usa, dall’olimpionica all’astronauta; dal 2000 in poi è diventata anche inclusiva, declinata in tutte le etnie e le corporature, e ha perfino abbracciato la disabilità e la malattia. Oggi è una specie di ambasciatrice dell’empowerment femminile, dell’autostima e

L'infinta querelle sulle statue bronzee da mettere nella piazza che però si chiama Tre Martiri

C’è qualcosa che non capisco nella lunga querelle sulla statua bronzea di Giulio Cesare, quella regalata da Mussolini alla città nel 1933 e ora custodita al Museo, anziché nella sua posizione originaria, in piazza Tre Martiri. Se c’è un luogo dove non sta bene esporre un souvenir del duce è una piazza consacrata a tre vittime del nazifascismo, e siamo d’accordo. Ma allora perché esporvi una copia esatta di quello stesso souvenir? Evidentemente il Comune ritiene che le colpe degli originali non ricadano sulle copie. Anzi, sulle copie delle copie delle copie, poiché già il Cesare mussoliniano è una copia realizzata dalla fonderia napoletana Laganà, che a sua volta aveva copiato la copia di una statua di epoca traianea che era stata collocata nel 1932 a Roma nella nuovissima via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali. Descritta così sembra un’installazione alla Andy Warhol, tipo il quadruplo ritratto di Marilyn o della zuppa Campbell. La cosa più buffa è che, fosse stato per Mussolini, il nostro Cesarone sarebbe finito a Ravenna, perché lì, secondo lui, era avvenuta la famosa allocuzione alle legioni prima del passaggio del Rubicone. Che Cesare avesse pronunciato il discorso a Rimini gli giungeva nuova. Anzi, il duce nemmeno sapeva

Certi uomini capiranno mai che una donna può metterci settimane o mesi per decidere se è il caso di denunciare o se è meglio cercare di dimenticare e di rimettere insieme alla meglio i cocci di se stessa?

C’è ancora molta gente (soprattutto uomini, bisogna dire) convinta che subire uno stupro sia più o meno come essere vittima di uno scippo o di un borseggio. Qualcuno ti ha strappato la borsa, o non ti ritrovi più in tasca il portafoglio o il cellulare, o la catenina al collo, e subito fai la cosa più naturale: corri dalla polizia a raccontare quel che ti è successo, anche perché senza denuncia non puoi rifare i documenti. Sei arrabbiato e sconvolto, ma non tanto da trascurare la prima precauzione, cioè bloccare carte di credito e bancomat. Quando si subisce un torto, niente e nessuno può trattenerci dal chiedere subito giustizia, no? E se lo facciamo per un portafoglio rubato, a maggior ragione dovremmo pretendere l’immediato intervento della legge per una forma di sopraffazione violenta. L’esitazione, l’indugio di una vittima di stupro nel denunciare vengono guardati con sospetto, come indizi sicuri di calcolo, di opportunismo, di malafede o addirittura di complotto. Sicuramente abbiamo a che fare con una scaltra profittatrice di piccola virtù, che prima se la spassa, poi, dopo attenta e ponderata riflessione, tenta di rovinare un pover’uomo, o peggio ancora, un povero ragazzo (specie se costui ha una posizione importante o

Il 30 per cento dei libri pubblicati in Italia non vende una copia

Noi scrittori già lo sospettavamo, ma vederlo scritto nero su bianco, con l’ufficiale inesorabilità dei numeri, in un autorevole studio di Nomisma, ci ha gettato nello sconforto: il 30 per cento dei libri pubblicati in Italia non vende una copia. Il 30 per cento. Nemmeno una copia. Foreste abbattute inutilmente per produrre, con dispendio di energia ed emissione di anidride carbonica, centinaia di migliaia di pagine che nessuno sfoglierà e che dopo poco finiranno al macero per venire riciclate, si spera, in articoli cartacei più utili: involucri da pizza, piatti e bicchieri da party, rotoli di carta da cucina, eccetera. Quel libro su tre può essere una chiavica o un capolavoro misconosciuto, poco importa: la pila di volumi resterà intonsa sul bancone della libreria. Ci sarà un altro quaranta per cento di titoli che riescono a vendere due o tre copie nei primi mesi dalla pubblicazione, spinti da qualche volenterosa segnalazione o dall’autopromozione dell’autore fra parenti, amici e conoscenti, tenue risultato rilevato dal primo rendiconto dell’editore; dal secondo rendiconto in poi la colonna delle copie vendute riporterà sempre uno sconsolante zero. Dopo un paio d’anni di invenduto o quasi, arriva la lettera fatale dalla casa editrice: caro signore, se vuole che continuiamo

La disputa scatenata da Zerocalcare non può lasciare indifferente la capitale del gelato

Il tempo della neutralità è finito, la questione è cruciale e Rimini deve prendere una posizione netta. Non stiamo parlando né della guerra in Ucraina, né della maternità surrogata, né del toto-commissario alla ricostruzione in Emilia-Romagna, nomina incagliata perché a Lega e a Fratelli d’Italia preme più raggranellare consensi che accelerare il risanamento delle zone alluvionate. No, per carità, parliamo di un tema concreto, comprensibile a tutti, che non ci costringe a improvvisarci esperti di geopolitica o di bioetica o di intrighi di palazzo con la quasi certezza di dire qualche fesseria: trattasi della disfida della panna, o meglio, del supplemento panna, gratuito o no a seconda delle gelaterie. Un conflitto inizialmente romano-milanese innescato dalla serie Netflix firmata Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo, sequel di Strappare lungo i bordi. Nella poetica dell’artista di Rebibbia il gelato è una costante e “annamo a pijà er gelato” una specie di slogan. Ora, in un episodio di Questo mondo sulla lavagna del gelataio si legge chiaramente “La panna è gratis perché non siamo a Milano”: a Roma infatti l’aggiunta panna montata, per chi la vuole, è già compresa nel prezzo del cono o della coppetta. Tanto è bastato per far scattare come un sol

Come assomigliava poco a Berlusconi il suo funerale

Come assomigliava poco a Silvio Berlusconi il suo funerale. Così mesto, tetro, scuro, taciturno… funebre, insomma. La nota più lieta è stata l’omelia di monsignor Delpini, per dire. Si vedeva proprio che non l’aveva predisposto e organizzato in anticipo lui, ma che era stato allestito in fretta da congiunti e conoscenti meno brillanti, geniali e spudorati, e forse anche colti alla sprovvista da un evento inevitabile per ogni essere umano, specie se anziano e malato, ma che nel caso di Berlusconi sembrava potesse essere rimandato all’infinito da un pool di medici in grado di cavillare con il Tristo Mietitore così come i suoi avvocati erano riusciti a farlo con due generazioni di giudici. Sono state esequie di Stato adatte a un uomo politico, a un grande industriale, che hanno oscurato completamente ciò che rendeva veramente unico Sua Emittenza nell’establishment italiano: il temperamento da showman e il gusto per la battuta e per la barzelletta, anche se inopportuna o discutibile, nella ferma convinzione, tipica del venditore, che chi sorride vince sempre. Sorrideva, o almeno si sforzava, perfino nell’ultima, terribile foto, scattata meno di due giorni prima della morte: il risultato era straziante anche per chi lo aveva sempre detestato, eppure aveva una sua