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13 maggio 1357 – Sgaraglino ultimo conte di Pietracuta è decapitato a Cesena


12 Maggio 2023 / ALMANACCO QUOTIDIANO

La feconda discendenza dei conti di Carpegna produsse nei secoli diversi rami. Uno fu quello dei Conti di Pietracuta, che durante il Trecento costituirono un loro autonomo “stato”.

“Castrum Petre Acute”, o “Petraccute” o ancora “Petragudolo” è già citato nel falso diploma di Ottone I, che lo avrebbe donato nel 962 a Ulderico di Carpegna. Documento fasullo, appunto; ma che il ripido scoglio strategicamente a strapiombo sulla valle del Marecchia fosse ben presto fortificato è abbastanza ovvio. La zona ha restituito reperti archeologici romani; i più notevoli e documentati, le otto sepolture rinvenute nel 1915 durante la costruzione della stazione ferroviaria di Pietracuta, ma in precedenza si ebbero notizie frammentarie su tombe presumibilmente “villanoviane” e di altri manufatti romani. Citazioni certe di una rocca risalgono almeno al 1140 e sempre come appartenente ai Carpegna. E’ compreso grazie, sulla foto ha ragione, ma la mappa conferma che Rondinaia si trova sul crinale fra le due valli anche certamente più vicina a Santa Sofianella lunga lista di castelli posseduti dal conte Rainerio quando nel 1228 giura fedeltà al Comune di Rimini insieme a Buonconte da Montefeltro.

Pietracuta

La produzione di documenti apocrifi doveva essere assai fertile da queste parti. Un altro atto grossolanamente contraffatto, dove si fanno figurare nel XIII secolo personaggi appartenenti a quello successivo, cita Guido da Pietracuta fra i confinanti con i conti Galasso e Feltrano; la carta è attribuita al famigerato falsario Tommaso da Ripatransone, che finirà giustiziato dai sammarinesi. Tuttavia Guido “di Carpigna” è considerato il primo conte del ramo autonomo di Pietracuta, come scrive Francesco Vittorio Lombardi in “La contea di Carpegna” (Urbania, 1977). Morto nel 1289, ghibellino di ferro, è collocato da Dante nel XVI canto del Purgatorio fra i romagnoli “cortesi” del bel tempo che fu.  Forse il figlio Rainerio muore prima di lui. Suo nipote Francesco o “Ceccho” nel 1303 è podestà del Comune di Forlì quando Federico, figlio del grande Guido da Montefeltro, ne è Capitano del Popolo. E proprio a Forlì Dante Alighieri, ospite del ghibellinissimo Scarpetta Ordelaffi, probabilmente conobbe di persona Francesco e potè attingere alle memorie riguardanti il nonno Guido.

L’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo scende in Italia alla testa del suo esercito nel 1310

Francesco conte di Pietracuta resta fra i leader filo-imperiali più in vista anche negli anni successivi. Nel 1312 Arrigo VII lo nomina suo vicario nella città di Todi, che l’anno dopo lo sceglie come podestà. Con la medesima carica passa ad Arezzo, come ricordano le cronache cittadine del 1314: “Ceccus de Pedragudola, comes, bonus et optimus, bene se gessit in officio suo”.

Quando i guelfi Malatesta di Rimini strappano Forlì ai Ghibellini, Francesco provvede a riportarla alla sua parte intervenendo assieme a Uberto di Ghiaggiolo (figlio di Paolo Malatesta “il bello”, protagonista della tragica storia d’amore con la cognata Francesca da Polenta) e Sinibaldo degli Ordelaffi. I Guelfi però ben presto prevalgono di nuovo e il primo di aprile 1316 una colonna di Ghibellini parte alla riconquista. Ma a Collina presso Civitella di Romagna (o forse presso l’omonima località a 7 km dalla stessa Forlì) l’armata cade in un’imboscata tesa da Guido di Valbona, discendente di quel “buon Lizio” anch’egli collocato da Dante fra i romagnoli che facevano capo alla lodata corte cavalleresca di Bertinoro. E’ un massacro e fra i caduti c’è anche Francesco da Pietracuta.

Il conte lascia due figli: Nerio (ovvero Rainerio) e Guido detto “Sgaraglino”. Il perchè di questo soprannome non è spiegato, ma certamente ha a che fare con l’attitudine guerresca: Sgheriglio, Sgariglio, Scheriglio, sono tutti termini con cui si definiva il fante armato alla leggera che si lanciava a combattere fuori dalla schiera. A Sgaraglino tocca il posto del padre fra i maggiorenti ghibellini e in questo ruolo nel 1318 va alla presa di Cagli, come riportano gli annali del luogo: “Una notte il conte Federico da Montefeltro, Signore d’Urbino, Guido chiamato Tigna, suo Figliuolo, Scarellino di Cecco da Pietracuta etc. (…) vennero ostilmente verso Cagli e rotte le Porte, ed i steccati, entrarono dentro, et occuparono la Città, che immersa nel sonno non attendeva sì fatta rovina; et in un subito gridando «ammazza, ammazza», diedero principio alle ferite et omicidij de’ cittadini, al saccheggiamento delle robe, al violamento delle Vergini, e Monache, ed a tutti quei mali che sogliono le più crudeli, e barbare Nazioni commettere in simili occorrenze”.

Per questo e altri fatti su Sgaraglino e soci piovono le scomuniche papali e addirittura contro i Ghibellini di Romagna e della Marca viene indetta una Crociata in tutto e per tutto equivalente a quelle lanciate contro i musulmani che occupano la Terrasanta. Federico da Montefeltro la paga più cara di tutti, letteralmente fatto a pezzi nella sua Urbino insieme al figlio nonostante si fosse arreso chiedendo pietà. Ma il nuovo imperatore Lodovico il Bavaro risolleva le sorti della parte e nel 1328 riconferma a Guido e Nerio di Pietracuta nei loro possessi.

L’imperatore Lodovico IV “il Bavaro”

E nel 1334 parte l’ennesima riscossa; Sgaraglino, questa volta capitanando truppe cesenati, rastrella l’entroterra forlivese e dopo vent’anni vendica suo padre, così come impone il diritto di faida ancora ben vivo a quei tempi. Il 18 aprile espugna il castello di Rondenaria (Rondinaia fra Santa Sofia e Bagno di Romagna), vi cattura Leocino di Valbona figlio di Guido e gli fa tagliare la testa.grazie, sulla foto ha ragione, ma la mappa conferma che Rondinaia si trova sul crinale fra le due valli anche certamente più vicina a Santa Sofia

Fra le tante efferatezze di Sgaraglino, all’epoca non fu certo questa la più esecrata. E se invece di attribuire a Dante Alighieri virtù anacronistiche che mai si sognò di possedere, si capirebbe bene anche il motivo. Perchè Geri del Bello, primo parente incontrato dal Divin Poeta all’Inferno (XXIX canto, nona bolgia), è adirato con lui? E perchè Dante riconosce che quel risentimento è del tutto meritato, nonostante Virgilio lo esorti a lasciar perdere? Non certo, come sostenne Natalino Sapegno, per “una distaccata pietà che… non è mai indulgenza, e tanto meno rinunzia a un ideale etico superiore”. Ma perchè Geri era stato assassinato da un Sacchetti e nessuno degli Alighieri lo aveva ancora vendicato. Il che avverrà trent’anni dopo la sua morte, quando dei nipoti di Geri ammazzarono un altro Sacchetti. Il tutto applicando la faida di origine longobarda, sconosciuta al diritto romano di Virgilio, ma ben vigente in pieno XIV secolo. E Dante non faceva eccezione nel riconoscerne l’assoluta legittimità, come del resto sancivano le leggi municipali e soprattutto i codici d’onore delle “buone” famiglie.

La torre e le rovine del castello di Rondinaia sovrastanti la valle del Bidente

Ma tornando ai conti di Pietracuta, dopo queste sanguinose vicende pare abbiamo goduto un periodo di tranquillità. Certo il loro peso politico è tale che quando i ghibellini Tarlati si devono rassegnare a cedere Arezzo agli aborriti guelfi Fiorentini, fra le clausole che riescono a strappare c’è anche l’annullamento del bando contro Sgaraglino e Nerio da Pietracuta, che il 3 marzo 1337 vengono pertanto dichiarati amici e fedeli di Firenze. 

Di Sgaraglino non si sa più nulla per circa un ventennio. Riappare a Forlì nel 1356, sempre dalla parte dei Ghibellini e in aiuto di Francesco Ordelaffi. La cui moglie Marzia detta Cia degli Ubaldini è inviata a presidiare Cesena e il conte di Pietracuta è insieme a Giorgio Tiberti fra coloro che la devono sostenere nella guerra contro il cardinale Egidio di Albornoz, il castigamatti che ha deciso di spazzare via tutti i signorotti che spadroneggiano nello Stato della Chiesa, Guelfi o Ghibellini che si dicano.

Il terribile cardinale assedia Cesena, ma l’indomita Cia non ne vuol sapere di arrendersi. Ha già fatto vedere di che pasta sia fatta nell’agosto di due anni prima, quando era uscita in sortita sempre da Cesena alla testa dei suoi armati per affrontare quelli agli ordini di Carlo Guidi conte di Dovadola che stava devastando il contado. Il conte viene ferito a morte, il bottino recuperato, due figli di Ramberto Malatesta e molti altri presi prigionieri. Secondo Matteo Villani, Cia si sarebbe comportata «non come femina, ma come vertudioso cavaliere» (Cronica, cit., l. V, cap. 77), montando armata a cavallo e incitando alla lotta.

Il popolo di Cesena però ne ha abbastanza e il 29 aprile 1357 si ribella agli Ordelaffi, proclamando la città libera dai signori e sottoponendosi a Santa Romana Chiesa. Cia deve rifugiarsi con i fedelissimi nella fortezza della Murata, trascinandosi dietro ostaggi e prigionieri accusati di aver fomentato la rivolta. Alcuni sono subito giustiziati e i loro corpi gettati dalle mura, mentre lo stesso Giorgio Tiberti finisce in catene. Di nuovo a Cia riescono alcune sortite vittoriose; o meglio, feroci rappresaglie sui cesenati ribelli. E poi, contro il parere dello stesso marito Francesco, il 13 maggio fa tagliare la testa sia al Tiberti che a Sgaraglino. Forse il conte di Pietracuta era stato sorpreso nel tentare un contatto con il nemico, vista la situazione ormai disperata. Cia si dovrà poi arrendere il 21 giugno dopo una sequela di altri episodi di inaudita violenza.

La breve storia della contea indipendente di Pietracuta si era comunque già conclusa. L’Albornoz aveva confiscato i beni di Sgaraglino per assegnarli ai suoi parenti guelfi, Nerio e Francesco di Carpegna. I figli del conte decapitato, Lodovico e Cia, pare si trasferissero nell’aretino, per poi sparire nel nulla.

La rupe di Pietracuta come si presenta oggi è quanto resta dopo lo sconsiderato sfruttamento perdurato fino al 1966, quando fu sottoposta a vincolo paesaggistico e storico, confermato definitivamente il 18 gennaio 1969. Prima di allora vi era stata attiva una cava per estrarre la pietra calcarea di cui è composta l’altura, così come è accaduto e accade in altri luoghi nelle valli del Marecchia e dell’Uso come monte San Marco, Uffogliano, Ripa Calbana: tutti caratterizzati da rilevanti presenze archeologiche, risalenti anche all’età del Bronzo. D’altra parte la pietra locale fu utilizzata fin dall’antichità: a Rimini la romana Porta Montanara fu costruita con blocchi di arenaria di Pietracuta.

Bassorilievo dalla pieve di Pietracuta

Appena all’esterno del castello esisteva la Pieve dedicata a S. Michele Arcangelo e S. Pietro. Da essa provengono il crocifisso trecentesco conservato a San Leo e un frammento di bassorilievo con figure animali, da qualcuno ritenuto longobardo, che è nei magazzini del Museo di Rimini. Sul monte di Pietracuta restano alcuni edifici, in parte restaurati e altri in rovina, che facevano parte del castello. Ci sono ancora una cisterna, un arco a sesto acuto che dava ingresso alla rocca sormontato dai ruderi di una torre e tratti delle cortine. Sulla sommità, i resti di una seconda cisterna e del maschio. Come annotava Pier Giorgio Pasini (“Rocche e castelli di Romagna – vol. III“, ed. Alfa, Bologna 1973) “è opinione diffusa che la rocca sia stata restaurata da Francesco di Giorgio Martini che eseguì, a quel tempo, lavori analoghi su commissione di Federico di Montefeltro, come confermano documenti esistenti; ma la scarsità dei resti non permette di convalidare tale ipotesi”.

Crocifisso di Pietracuta (1350 ca.?)