HomeCulturaE con le foto di Frisoni ritrova voce la nostra anima contadina


E con le foto di Frisoni ritrova voce la nostra anima contadina


24 Febbraio 2020 / Paolo Zaghini

Giancarlo Frisoni: “Le case del cuore” – AIEP.

Sabato 29 febbraio, alle ore 17.00, avrò il piacere di presentare il nuovo splendido libro di Giancarlo Frisoni presso la Biblioteca Comunale “Don Matteo del Monte” di Montescudo-Monte Colombo a Taverna. Il fotografo Livio Senigalliesi ha scritto: “L’uso sapiente del suo bianco e nero emoziona e conserva tutta la forza della sua terra. Secondo i dettami della migliore fotografia, ha la capacità di cogliere le espressioni e le voci dell’anima”.

Dopo lo straordinario volume “Memorie. Volti e voci della mia gente” (ARTinGENIO, 2018), Frisoni con questa nuova opera continua ad esplorare, o meglio a conservare per lui e noi tutti, pezzi di un mondo contadino romagnolo ormai scomparso da tempo. Lo ha fatto fotografando nel corso degli ultimi decenni le case coloniche del nostro territorio, quelle sparse e quelle nei ghetti.

“La voce delle vecchie case non c’è più. Sono ruderi oramai, nei silenzi d’abbandono. Croci di un passato dove persone hanno consumato e guadagnato i loro giorni divisi tra quei muri e la terra”.

Sono splendide centinaia di foto in bianco e nero scattate nella vallata del Conca (nelle numerose frazioni del comune di Montescudo-Monte Colombo, e a Gemmano e San Clemente; nelle frazioni di Coriano; nei comuni montefeltrani di Sassofeltrio, Mercatino Conca, San Leo, Novafeltria; nelle frazioni sammarinesi di Faetano, Serravalle, Torraccia, Valdragone; nelle frazioni riminesi di Gaiofana, Sant’Aquilina, San Salvatore) a case coloniche, per lo più abbandonate, ma (al momento della foto) trasudanti ancora immagini del duro lavoro contadino e di chi lì vi aveva vissuto.

“Dovevo farlo, dovevo salvare i segreti che custodivano le ultime resistenze e i palpiti, la fierezza della vita che c’era passata dentro. Perché la morte non è mestizia di chi resta, ma memoria che parla di ogni cosa, e tocca a noi salvarla!”.

In un magistrale saggio di Lucio Gambi su “La casa dei contadini” apparso nel volume “Strutture rurali e vita contadina” (Federazione delle Casse di Risparmio dell’Emilia-Romagna”, 1977) che rendeva conto di una situazione fotografata in Emilia-Romagna tra la fine della guerra e gli anni ’60 quando, in base al censimento del 1951, la popolazione in regione “era addetta a esercizi agricoli per una quota da 60 a 80%”.

“La media di una abitazione ogni cinque in condizioni di totale deficienza igienica: cioè priva di cessi e di qualunque fornitura di acque potabili. A queste deficienze di servizi elementari s’aggiungono con molto maggior peso elementi che, in una situazione come l’agricola, ove la casa vede sovraimposti o congiunti lo spazio residenziale e l’ambiente di lavoro, non sono di agevole misurazione: e cioè il sovraffollamento, la scarsa illuminazione, la inadeguata areazione, l’eccessiva prossimità alle stalle, ecc. Situazioni che si riflettono da lungo tempo sugli stati di salute dei contadini”.

Le foto di Frisoni ritraggono la casa della mezzadria. La vecchia centuriazione romana “ha fornito una predisposizione mirabile al ritaglio dei poderi e alla dislocazione di una casa isolata in ciascuno di essi. Naturalmente l’isolamento della casa è funzionale ai rapporti di produzione che governano la mezzadria: i cui contratti fino agli inizi del secolo limitano fortemente gli spostamenti dei contadini verso i luoghi di contaminazione ideologica, come il mercato urbano o la fiera paesana (e gli vietano l’osteria). Una famiglia che viva in una dimora a sé, sopra il fondo che coltiva, e ha solo occasionali incontri con le vicine, dà una maggiore continuità ed efficienza al suo lavoro, e socialmente si mantiene tranquilla”.

“Giancarlo è un artista poliedrico. Un uomo, eclettico e per sua natura modesto – ha scritto nella presentazione Saro Di Bartoloche ha condotto a compimento un’opera importante. Un volume in cui la ricca documentazione fotografica è accompagnata da commenti, racconti e versi, sia in italiano che in ‘lingua’ romagnola. Sono storie della quotidianità della quale sono protagoniste persone di ogni età, uomini, donne e bambini che hanno abitato le ‘case del cuore’”.

Il grande regista italo-turco Ferzan Ozpetek si domandava: “Si lasciano mai le case dell’infanzia? Mai: rimangono sempre dentro di noi. Anche quando non esistono più”. Le fotografie di Frisoni mi hanno riportato indietro nel tempo, alla mia infanzia, alla casa colonica dei nonni paterni, quella dei “Matalùn” alle Celle di Rimini dove sono nato anch’io. Il tetto spiovente, il portico, i due piani, la stalla, il pollaio, le camere grandi dove si stava in tanti, i locali dei salumi e dei formaggi, quello dei bachi da seta, la ‘buca’, il pozzo, la cantina. Nelle fotografie del libro ci sono tutti questi particolari, anche se ripresi in un altro contesto territoriale.

Nel libro ci sono ricordi di tanti che Frisoni ha riportato in otto schede sparse fra le pagine: “Le case lungo il Conca erano fatte quasi tutte di sassi perché la materia prima non mancava (…). Nelle case per reggere i solai si muravano grosse travature quasi esclusivamente di rovere intersecate da legni minori”. “La casa era grande in base al podere e quindi alle persone che servivano per lavorarlo”. “Attaccato alle case e vicino alla letamaia, c’erano il porcile e il pollaio (…). Un detto diceva che la scala del pollaio era come la vita ‘curta e pina ad merda’”. “Addossato alla casa e sempre rivolto dove nasceva il sole, c’era il portico”. Nella stalla “oltre alle bestie ci ritrovavamo tutti al caldo”. “Sora la stala ui’èra la camera dl’azdòr, era quella più calda perché il calore delle mucche saliva attraverso le fessure dei mattoni, ma c’era pure un certo odore!!”.

D’inverne at cli stale, i burdél in steva mai ferme, isé dal volti i caschéva drenta tl’uriùl! Dopo bsugnéva lavei e cambiéi, e i ciapéva enca do scapazùn! Ah quando ci voleva ci voleva! Adesso sento dei bambini che insultano i genitori, gli dicono parolacce. Na na, un va ben!”.

“Le donne quando partorivano femmine erano guardate male perché i mariti bramavano i maschi. A uno che aveva già tre femmine tutti gli auguravano dei figli maschi, e lui per averne uno, a quella povera moglie sette figli le ha fatto fare!”.

Ancora Di Bartolo: “Ci parla di mestieri, arti artigianali, sapori, odori, agricoltura, animali. Ci propone paesaggi ed architetture rurali un tempo vive, ma oggi ormai abbandonate. Luoghi divenuti silenziosi e dimenticati, a cui dedica immagini e prosa che raccontano delle vite ivi trascorse. Così facendo rende merito a quanti vi hanno vissuto le proprie esistenze, spesso vite consumate dalla dura fatica e dai sacrifici, vite di stenti immensi. Storie di miserie catturate a quanti, forti o fragili, ne hanno fatto dono a Giancarlo, che oggi le regala a noi, attraverso i suoi profondi pensieri e le sue immagini”.

Paolo Zaghini

La presentazione, prevista a Taverna, è rinviata a data da destinarsi.