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10 novembre 1355 – Venezia denuncia il podestà riminese di Pesaro: “Conia moneta falsa”


10 Novembre 2023 / ALMANACCO QUOTIDIANO

Il 10 novembre 1355 il Consiglio dei Quaranta, cioè il tribunale supremo della Repubblica di Venezia, mette ner su bianco che il nobile Nicoletto Mocenigo “pro sua confessione ha contra honor et ordini fato cuniar monede falsse im Pesaro, fate di compagnia con il signor di Rimano”. Tale signore riminese è Pandolfo II Malatesta, figlio del Guastafamiglia, fratello di Malatesta Ungaro e podestà di Pesaro dal 1347 fino alla morte, sopravvenuta nel 1373.

La moneta falsa fabbricata a Pesaro era il frisacense, (friesacher) denaro d’argento in origine coniato nella zecca di Friesach in Carinzia; ma a quell’epoca il più diffuso a Venezia e nel Friuli era prodotto ad Aquileia. Per questo traffico il Mocenigo l’anno prima aveva già subito una condanna e un’ammonizione. Ciò nonostante era finito di nuovo sotto processo per una storia analoga riguardante il bronzale, un conio in rame puro. Come accade anche oggi, bersaglio dei falsari erano innanzi tutto gli spiccioli, le monete di poco valore e molto corso, cui si presta meno attenzione rispetto ai pezzi importanti. Il Mocenigo in combutta con il podestà di Pesaro ne aveva prodotti per 500 ducati (50 mila euro di oggi solo considerando il valore dell’oro) per poi farli arrivare via mare e Venezia e di qui a Segna in Dalmazia. Dove con la complicità di un altro signorotto locale, Bertalan Frangipani o Frankopan conte di Veglia, non solo aveva coniato altri bronzali fasulli “in quodam castro vocato Badagno” (in croato Badanj, scoglio e ora promontorio dell’isola di Meleda), ma si era dato anche al conio di non meglio precisati “colombacci”:  “cioè una moneta, forse il frisacense, che deve aver raffigurato una aquila tanto ridicola da sembrare una colomba” (Reinhold C. Mueller: “Venezia nel tardo Medioevo, economia e società”).

Lo scoglio di Badagno nell’isola di Meleda

Si penserebbe che il Mocenigo, reo confesso e recidivo, abbia pagato con la tremenda pena allora prevista per il suo reato, cioè essere bruciato sul rogo. Niente affatto. E nemmeno dovette subire il taglio della mano destra, l’accecamento e l’esilio perpetuo che erano inflitti ai falsari quando era loro risparmiata la vita. La Quarantia si limitò ad ammonirlo di nuovo, fermandosi alla minaccia di arderlo solo se fosse stato colto una terza volta a contraffare valuta. Il che la dice lunga sulla “certezza del diritto” che vigeva nella Serenissima repubblica aristocratica di San Marco. Tale magnanimità non affatto la regola, specie se i colpevoli erano stranieri e a occuparsene erano i Signori della Notte al Criminàl, cioè la magistratura penale di prima istanza. Nel 1314 avevno infatti perduto la mano destra ed erano stati cacciati per sempre due fratelli pistoiesi, Francesco e Boncompagno di mastro Donato; stessa sorte nel 1322 per un altro contraffattore. Invece nel 1326 la Quarantia aveva inflitto solo lievi pene pecuniarie a tre cambivalute veneziani che avevano spacciato denaro fasullo fabbricato in castelli del ravennate e vicino a Forlì.

Pochi anni dopo il caso del Mocenigo, si torna al pugno di ferro. Forse perchè questa volta a essere vittima della contraffazione era il conio veneziano più celebre, il ducato d’oro. Nel 1364 la Serenissima era riuscita ad ottenere dalla Padova dei Da Carrara l’estradizione di tale notaio Paolo e dell’orefice Jacopo di Ravenna. I due avevano fino ad allora ricavato 220 ducati da rame per mezzo ducato e tre monete d’oro autentiche. Il notaio aveva poi avuto la sfacciataggine di spendere proprio a Venezia i ducati sui quali era stata applicata una lieve doratura. La pagherà carissima. Sempre Mueller: “Condotto su una chiatta per il Canal Grande fino a S. Croce con in testa una corona decorata con i ducati falsi, per proseguire di lì a piedi, seguito sempre dal banditore («precone») che gridava la sua colpa, per Ruga dei Oresi, Rialto, la Spezieria, la Merceria fino a San Marco alle due colonne, dove venne bruciato «taliter quod moriatur» sempre con in testa la detta corona.

I falsari nel Canto XXX dell’Inferno (miniatura di Priamo della Quercia, XV sec.)

Nessuna conseguenza invece per i signori che dei falsari si erano resi complici. La produzione di moneta falsa era molto spesso coperta, incoraggiata se non direttamente intrapresa da taluni governanti: così era stato per i conti Guidi di Romena con il dantesco Mastro Adamo: quest’utimo sul rogo, ma i nobili complici nessuno li aveva potuto toccare. Così per i castellani di Forlì e Ravenna nei casi sopra citati, ne per i Manfredi di Faenza che un bel giorno decisero di allestire una vera zecca clandestina. E niente avrà a patire nemmeno Pandolfo II Malatesta, del resto appena agli inzi di una sfolgorante carriera di capitano di ventura, mecenate, amico di Petrarca e poeta egli stesso.

(nell’immagine in apertura: frisacensi di Aquileia del XII secolo)