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Arriva la notte dei Malatesti


13 Dicembre 2016 / Stefano Cicchetti

Attenzione, perché questa è la notte dei Malatesti. Fu infatti un 13 dicembre di 721 anni fa che Rimini divenne malatestiana, per restarla nei successivi due secoli dal punto di vista politico; per sempre, da quello culturale e simbolico.

Cosa successe dunque in quel fatidico 1295, nel giorno di Santa Lucia?

Come tutte le città del centro e nord Italia, Rimini è dilaniata dalle interminabili lotte fra guelfi e ghibellini. Sostenitori gli uni del papa, gli altri dell’imperatore, si è sempre detto, molto semplificando.

Da quando si è costituito intorno al XII secolo, il Comune di Rimini è sempre stato ghibellino. Ma dopo la rovinosa sconfitta dell’imperatore Federico II a Parma nel 1248, i suoi partigiani perdono terreno ovunque. E molti cambiano bandiera, come accade a Malatesta da Verucchio un attimo dopo aver constatato le sorti della battaglia.

Da quel momento i “pentiti” Malatesti assumono a Rimini la guida della parte guelfa, fin ad allora capeggiata dai Gambacerri. In quel 1295 il capo indiscusso è Malatesta da Verucchio, con i suoi 83 anni gagliardamente portati, che ancora combatte a cavallo in testa alle sue schiere e che Dante ribattezzerà significativamente “il Mastino”.

La famiglia leader dei ghibellini è quella dei Parcitadi. Il loro cognome – che, come spesso accadeva allora, divenne anche un nome di battesimo – deriva da una vetusta carica amministrativa dell’Esarcato che fu bizantino: il pater civitatis, “padre della città”, che dovettero detenere per tanto tempo da identificarli come dinastia.

Ma non è solo uno scontro fra famiglie. Dietro ogni “parte” ci sono blocchi sociali differenti. Notabili cittadini i Parcitadi, più avvezzi a gestire le cancellerie che a menare le mani, anche se da sempre controllano le milizie cittadine; signori rurali i Malatesti, che si atteggiano anche a paladini della “gente nova” contro l’establishment dei vecchi aristocratici. E che sono uomini d’azione, sempre impegnati armi alla mano nelle infinite, endemiche guerricciole di allora.

Significativa anche la “geopolitica”: le case dei Parcitadi erano presso Porta San Tomaso, che faceva parte cinta muraria antica e sorgeva sull’attuale via Gambalunga sul lato mare di piazza Ferrari. Prendeva il nome da un antichissimo (V sec.) e potente monastero, i cui resti – nell’Ottocento si segnalavano ancora tracce di mosaici – si dovrebbero trovare ancora sepolti nella parte dei giardini non scavata quando fu scoperta la Domus del Chirurgo.

Stare a Porta San Tomaso significava controllare il porto e il commercio, nonché poter contare su di un aiuto dal mare: l’Adriatico era un lago veneziano e a Venezia si sarebbero rifugiati i Parcitade dopo la sconfitta. Una Serenissima che trattava sì con gli Svevi, ma se sentiva l’autorità di un’impero era per quello “vero”, l’impero dei Romani del Basileus di Costantinopoli.

I Parcitadi erano dunque depositari della tradizione e della continuità di un potere che affondava le radici nel passato civico più remoto. È stato giustamente osservato che la stragrande maggioranza delle famiglie nobili di Rimini ancora in pieno XVIII secolo avevano le loro residenze proprio in questo quarto di città, quello dove era esistita la Corte dei Duchi bizantini, la Castalza del popolino.

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I Malatesti, invece, fin da quando si erano insediati in città fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, avevano le loro case dalla parte opposta, dove adesso sorge Castel Sismondo, ma anche nelle “Case Rosse” presso Porta Sant’Andrea, o Montanara. Posizione defilata e lontana dalle residenze nobiliari, ma anch’essa strategica: oltre a incombere sulla cattedrale di Santa Colomba e sull‘Arengo, controllava le due porte di accesso al contado e in particolare alla Val Marecchia, dove la famiglia aveva pazientemente costruito il suo potere feudale.

A complicare le cose, e incrudelirle, le due famiglie si erano a un certo punto anche imparentate. Nel 1246, quando ancora stava cui Ghibellini, Malatesta da Verucchio aveva sposato Concordia, figlia del vicario imperiale Enrighetto dei Pandolfini e, soprattutto, di una Parcitadi.  La consorte gli aveva portato una ricchissima dote – fra cui Torre del Gualdo (oggi Villa Gualdo presso San Mauro) e il vicino castello di Giovedia, su cui oggi si vede la pascoliana Torre di Villa Torlonia – e dato cinque figli: Rengarda, Malatestino detto “dell’occhio”, Giovanni detto “lo sciancato”, Paolo detto “il bello”, Ramberto, avviato alla vita religiosa.

Ma torniamo agli avvenimenti del 1295, in una successione di farsa e tragedia degna di Shakespeare.

Da giorni la tensione è altissima, le fazioni si fronteggiano a brutto muso e tutti circolano armati. L’ennesimo patto di pacificazione è agli sgoccioli e ciascuno ne è consapevole. Basta una scintilla per far divampare l’incendio.

E la scintilla scocca il 10 dicembre, ma nel più ridicolo dei modi. Un asino si imbizzarrisce proprio nell’affollata piazza della Fontana, di fronte all’Arengo. Nella confusione che ne segue, qualcuno crede che sia scoppiato il tumulto decisivo.

Il primo a sguainare la spada è il guelfo Lodovico delle Caminate, che chiamando a raccolta i suoi si mette a gridare “Viva Miser Malatesta!”. Non fa in tempo a ripeterlo che viene trafitto da un dardo di balestra scoccato da un partigiano dei Parcitadi: “Et fo morto subito”, raccontano le cronache.

É il finimondo. Per tre giorni ci si dà ferocemente battaglia nelle strade. Le case fortificate da torri sono altrettante basi per colpi di mano e spedizioni punitive.

Il terzo giorno si viene a sapere che a San Marino si stanno concentrando i rinforzi per i Parcitadi capitanati nientemeno che dal Conte Guido, il più prestigioso dei capi ghibellini. Ha chiamato a raccolta da Fabriano ad Arezzo la temutissima cavalleria ghibellina, da sempre nettamente superiore a quella dei Guelfi. Malatesta dei Malatesti allora chiede una tregua. E Parcitade dei Parcitadi accetta, certo di poter regolare i conti non appena le truppe amiche arriveranno a Rimini. Così almeno la cronaca trecentesca, anche se secondo gli storici moderni il vecchio Parcitade era già morto da tempo e quindi ad accettare quel patto sarebbe stato suo nipote Montagna.

Chiunque fossero, i due caporioni si dànno pubblicamente la mano e – addirittura! – “se basosse per la bocca”.

Il patto è che tutti gli armati escano dalla città. Il che avviene, fra rulli di tamburi, stendardi al vento, strepito di trombe, festa di campane.

Ma a mezzanotte – e chissà se era una notte come questa, gelidamente avvolta dalla nebbia – i guelfi si radunano presso la Porta del Gattolo – ora inglobata in Castel Sismondo – e la trovano spalancata da altri armati che, invece di andarsene come promesso verso Verucchio, si erano nascosti nelle adiacenti case dei Malatesta.

Ne segue una caccia all’uomo dove per i ghibellini non c’è speranza né pietà.  Ugolino dei Parcitadi cade armi in pugno;  Montagna, figlio di Parcitade, è catturato dai Malatesti.

Secondo la cronaca riminese, il  vecchio Parcitade riesce a salvarsi a San Marino, dove però Guido da Montefeltro ha già licenziato le truppe proprio su richiesta dell’alleato riminese. Il capo ghibellino l’avrebbe accolto con questa improbabile freddura: “Benvenuto, Messer perde citade!”. E’ anzi piuttosto inverosimile la partecipazione stessa di Guido a queste vicende. Non controllava più Urbino dal 1286 e dal 1294 si era sottomesso alla Chiesa, tanto che nell’anno seguente Bonifacio VIII lo aveva fatto signore di Forlì: e lì doveva trovarsi durante i torbidi riminesi.

Quanto a Montagna, secondo il commentatore dantesco Benvenuto da Imola, il Mastino l’aveva affidato in custodia a suo figlio Malatestino “dall’occhio” con mille raccomandazioni di sorvegliarlo nella cella, che “se voglia affogarsi non possa”. Avesse o no colto un sinistro doppio senso, alla fine Malatestino fa scannare Montagna in carcere.

E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verrucchio, 
che fecer di Montagna il mal governo, 
là dove soglion fan d’i denti succhio.

Così Dante nel XXVII canto dell’Inferno, dove proprio a Guido da Montefeltro, morto da poco in saio da penitente, racconta la situazione politica della sua Romagna nell’anno 1300.

Il “Mastino”, invece, arriva a campare cent’anni tondi, passando a miglior vita solo nel 1312 e scegliendo anche lui di scendere nella tomba nel ruvido abito francescano.

Prima, però, ancora in sella al suo cavallo nel 1303 a Pulicciano aveva fatto in tempo a dare un una mano a Fulcieri di Calboli nello sventare il tentativo del ghibellino Scarpetta Ordelaffi di far rientrare a Firenze i fuoriusciti Bianchi, fra i quali vi era anche Dante Alighieri.

Dal suo esilio divenuto così definitivo, il sommo poeta saprà ricambiare il favore da par suo. Fra l’altro, mettendo in piazza quello scandalo avvenuto in casa Malatesti, tanto obbrobrioso che nessuna cronaca contemporanea osava parlarne: Giovanni, figlio del Mastino, uccide il fratello e la moglie divenuti amanti: Paolo e Francesca.