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Di mamma ce n'è una sola mentre il padre è incerto anche nei nomi, dal papà al tata

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Il premio Ignobel (che poi sarebbe Ig-Nobel) è un ironico riconoscimento che ogni anno, nella solenne cornice dell'università di Harvard, viene assegnato a ricerche assurde e paradossali, «che prima fanno ridere ma poi fanno pensare». Inaugurato nel 1991, nel corso degli anni ha premiato studi sulle scene di clisteri raffigurate sugli antichi vasi Maya, sui benefici del didgeridoo nella cura delle apnee notturne e sullo stato fisico dei gatti, che sono solidi ma a volte si comportano da fluidi, prendendo la forma di qualunque scatola in cui decidono di infilarsi. Gli Ignobel 2023 verranno proclamati in settembre, ma forse possiamo già suggerire per la rosa delle ricerche vincitrici quella realizzata da Andrew Killingworth della Pennsylvania University, che ha accertato che i soldi dànno davvero la felicità. L’unico handicap potrebbe essere che questa indagine scientifica non fa «prima ridere e poi pensare», ma fa fare le due cose contemporaneamente: prima si ride, pensando che sussistano ancora ragionevoli dubbi sul legame fra denaro e felicità, tanto da doverlo esplorare scientificamente, e poi si pensa, ridendo, che qualcuno ha finanziato un accademico di una prestigiosa università americana per dimostrare una tesi facilmente verificabile interrogando parenti e vicini di casa, oppure, se si ritiene che

In questi giorni i miei gatti sono piuttosto agitati. Forse non solo i miei. Ma dubito che la colpa sia solo del risveglio primaverile e dell'approssimarsi della stagione degli amori, che innervosisce anche i felini sterilizzati. Credo che la comunità dei gatti della zona si stia comunicando via vibrisse e feromoni l’unanime sdegno per il caso Tiberi, ovvero il clamoroso gatticidio di cui si è reso colpevole un campione di ciclismo, da un anno residente sammarinese. L’atleta deve aver interpretato in senso troppo ampio la definizione «terra della libertà» di cui si fregia la Repubblica del Titano, e così si è sentito autorizzato a sperimentare la sua nuova carabina ad aria compressa su un gatto di passaggio, freddandolo sul colpo. Fosse stato un gatto qualunque, forse Tiberi l’avrebbe passata liscia o quasi. Disgraziatamente per lui, la vittima era l’adorato quattrozampe del ministro Pedini Amati, ed è scoppiato un putiferio. Non tanto a livello legale (Tiberi se l’è cavata con una multa di quattromila euro, non un gran salasso per uno sportivo giovane ma già affermato a livello internazionale) quanto sotto il profilo dell’immagine. L’incivilimento dei costumi nell’ultimo secolo - fenomeno che a Tiberi, troppo impegnato nei suoi allenamenti, era probabilmente sfuggito –

Ve lo ricordate l’Occhio, il quotidiano fondato dal compianto Maurizio Costanzo? Io sì. Dev’essere stato uno dei primi quotidiani che ho comprato da ragazzina. Mi incuriosiva perché era un tabloid, più pop di Repubblica, aveva articoli brevi e leggibili con titoli a effetto e somigliava ai tabloid inglesi, ma senza le donne nude. Il fascino della novità si esaurì presto, a pochi mesi dall’uscita, nel 1980, le vendite erano già crollate e poi, con lo scoppio dello scandalo P2, cui appartenevano sia Costanzo che i vertici della Rizzoli, editore dell’Occhio, il giornale sparì dalle edicole, e ben presto anche dalla memoria. Forse è l’eredità più caduca del personaggio appena scomparso, che chiamare giornalista è decisamente riduttivo. Perché Maurizio Costanzo, personalità tanto poliedrica quanto inafferrabile, è davvero uno dei pochi di cui si può dire «muore l’uomo ma non le sue idee», comunque le si giudichino. Idee di televisione – il suo regno per tanti anni -, che hanno modellato non solo le nostre serate, ma anche la trasmissione della cultura, il confronto sulle idee e soprattutto la politica. Costanzo introdusse subito i politici nel format televisivo che lui per primo aveva lanciato in Italia, il talk show, prima con Bontà loro, e

Ecco perchè in ogni caso è sempre meglio cancellare le conversazioni

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Chi ha fatto le ore piccole per vedere tutta la finale di Sanremo 2023? Qualcuno che non ha visto le quattro serate precedenti e non sa che Marco Mengoni aveva già la vittoria in tasca dalla prima serata. Mentre scrivo queste righe l’ultima tranche del Festival sembra solo un piano inclinato che porterà inevitabilmente il leoncino d’oro rampante simbolo della città ligure nelle mani del cantante di Due vite, non prima delle due e mezza di notte. Si vincono anche soldi? Pare di no, il guadagno è tutto in visibilità, impennata di vendite e di passaggi radiofonici, moltiplicazione dei concerti e prestigioso passaggio a Eurovision Song Contest – e, naturalmente, il vincitore entra (o dovrebbe entrare) nella storia del Festival. Tutte cose di cui Mengoni non ha bisogno, avendole già ottenute tutte nel 2013, Eurovision compreso – dove arrivò solo settimo, a causa dell’inveterata allergia paneuropea alle canzoni intimiste e agli interpreti dal look minimalista. (È l’argomento più forte in mano agli anti-mengonisti, e cioè che se vince lui, l’Eurovision ce lo scordiamo anche quest’anno, mentre con Rosa Chemical o con Madame, o al limite con i Cugini di Campagna avremmo più speranze.) Comunque la si pensi su Mengoni (e io sono

«Non protesto mai quando mi vengono attribuite radici ebraiche, anzi, sarei orgoglioso di averle». Quanto mi sarebbe piaciuto che Elly Schlein, la candidata più «nuova» alle primarie del Pd, avesse risposto come Charlie Chaplin alle allusioni maligne alla sua ascendenza paterna, di cui ha parlato in un’intervista a Tpi. Allusioni che squalificano solo chi le fa, oltretutto a pochi giorni dal Giorno della Memoria (che a quanto pare, come sospettava Liliana Segre, serve più a riempire i giornali e i palinsesti televisivi che a svuotare la testa della gente da pregiudizi e diffidenze), tanto più se, come gli odiatori di Schlein, tirano in ballo tratti somatici – il naso, sai che fantasia. Cosa vuoi dire a gente che nel 2023 parla ancora di «naso ebraico» se non di vergognarsi oppure di farsi curare da uno bravo, meglio ancora tutt’e due le cose? E invece Schlein, ahimé, ha risposto scendendo sullo stesso terreno degli imbecilli antisemiti: non solo ha smentito di essere ebrea, essendo nata da padre di origini israelite ma da madre gentile, «e la trasmissione avviene in linea matrilineare», ma ha affermato, spero scherzando, che il suo naso è «tipicamente etrusco». Ma perché? C’era bisogno di puntualizzare pubblicamente di non appartenere

Lia Celi: "A forza di vivere con noi i «pet» hanno finito per assomigliarci, ci fidiamo?"

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