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Leoni da tastiera, sfigati per definizione, temono di passare per gente semplice che in vacanza vuole solo spaparanzarsi sul lettino

Mi è difficile non fare la ola alla notizia che il sindaco di Rimini intende scendere in campo contro gli haters del mare Adriatico, quelli che, da quando esistono i social, ogni estate che manda Dio si fanno un dovere di parlarne male. Me li immagino come i poveracci “vorrei-ma-non posso” di certe vecchie commedie all’italiana, che non potendo permettersi le ferie se ne stanno chiusi in cantina per far credere ai vicini di essere partiti: esprimendo sui social disprezzo per il mare del turismo popolare sperano di dare l’idea di essere abituali frequentatori di spiagge più esclusive e scenografiche, Salento come minimo. Il cliché dell’alto Adriatico sporco e lutulento ormai si è così incistato nella testa dell’italiano medio che chi sceglie la Romagna si sente in dovere di precisare, in tono di scusa, che lo fa “nonostante il mare”: ci va per l’ospitalità, l’organizzazione, il cibo, la vicinanza, i servizi, i prezzi tutto sommato contenuti rispetto ad altre località, non certo per quell’acqua che si ostina a non sembrare quella di Grace Bay. Io stessa ho dovuto bacchettare un amico che aveva corredato i tweet e le immagini di un piacevole weekend a Rimini con l’inevitabile “il mare è quello

E pensare che con una sceneggiatura del genere Tonino Guerra magari ci avrebbe vinto un Oscar

Quando la realtà ti serve su un piatto d’argento una trama succulenta, pronta per essere trasformata in un progetto per Netflix e piattaforme assortite, bisognerebbe gettarcisi a pesce. E la guerra fra Pennabilli e i vampiri, già rimbalzata sui quotidiani nazionali, è uno spunto che vale oro perché intreccia horror, politica, commedia sullo sfondo di un pittoresco borgo italiano, ingredienti che hanno fatto il successo di innumerevoli film e serie. Agli sceneggiatori si richiederebbe uno sforzo minimo, perché i personaggi sono già belli e pronti: il leader della setta dei Real Vampires, il sindaco-sceriffo fascistoide che non vuole fare del suo comune una succursale della Transilvania, il pugnace regista deciso a realizzare un film vampiresco proprio nell’ameno paesino caro a Tonino Guerra, e, a rappresentare la voce della ragione e della scienza, il direttore del Museo del Calcolo e della Matematica, ovviamente ostile agli eredi contemporanei di Dracula. Manca solo una presenza femminile, indispensabile in tutte le storie di vampiri: se la cronaca non la offre, dovranno pensarci gli autori, cambiando genere a qualcuno dei protagonisti o aggiungendo ex novo un’anemica eroina da salvare, un’affascinante vampira, un’inquietante badessa custode di inconfessabili segreti o la classica reporter d’assalto venuta a infiltrarsi tra i

Chissà quale magica e sfuggente alchimia c'è nell’insalata di riso sull'arenile: e naufragar ci è dolce in questo tupperware

Nei gesti pre-festivi dei recanatesi osservati da Leopardi nel Sabato del villaggio – la ragazza che torna dalla campagna con i fiori che si metterà fra i capelli e nel decolleté, le vecchiette che rimembrano i balli della giovinezza, l’artigiano che si affretta a finire il lavoro, eccetera – non ce n’è uno dedicato al cibo. Per le vie del borgo niente aromi di ragù che sobbolliscono, niente rumori di mattarelli che stendono, niente aromi di grigliate succulente, niente conversazioni su cosa ci sarà in tavola: a Recanati la cena del sabato e il pranzo della domenica dovevano essere molto parchi, oppure Leopardi era inappetente e non ci faceva caso (del resto la sua passione erano i dolci, in particolare il gelato, che domandò anche sul letto di morte, a Napoli nel 1837. I medici storsero il naso e gli portarono una cioccolata o, secondo un’altra leggenda, un chilo e mezzo di confetti di Sulmona; probabilmente tutt’e due le cose, visto che Leopardi morì la mattina dopo per coma diabetico). I discorsi e i ragionamenti sul cibo sono invece un aspetto fondamentale del sabato riminese, compreso quello della Notte Rosa, e basta fare un giro al mercato per rendersene conto. Vista

Dalla Marianna un atto di fede nell’onestà dei suoi citoyens, chissà quanto ricambiato

«E i francesi che si incazzano, che le balle ancora gli girano»: la citazione da Bartali di Paolo Conte è d’obbligo, all’indomani della storica giornata che ha colorato Rimini di giallo-Tour de France. Perché anche senza sapere esattamente come sono andate le cose, ci sarà stato di sicuro qualcosa che li ha fatti incazzare, sono fatti così, specie se ci siamo di mezzo noi italiani. Ma forse ieri non c’era bisogno di incomprensioni fra cugini gallo-latini per innervosire i transalpini. Oggi in Francia si vota, un appuntamento che potrebbe cambiare il volto del Paese, e i francesi che sono qui per seguire il tour non potranno andare alle urne, che tifino Bardella o Nuovo Fronte Popolare. Il colpo di teatro di Macron, che ha indetto a sorpresa le elezioni la sera stessa delle europee, ha complicato la vita a tutti quelli che avevano fatto programmi di lavoro o di vacanze all’estero dal 30 giugno in poi. E considerato ciò che bolle in pentola – un governo di destra-destra con tendenze filoputiniane – c’è di che stare sulle spine. Può darsi che i francesi che si trovano in Romagna per la Grande Boucle abbiano designato una persona che oggi ci vada al posto

Ma quale pericolo costante, tutti i numeri dicono esattamente il contrario

Ah, la Francia. Seppure incasinata e sull’orlo di una svolta politica a destra che potrebbe far sembrare centrista il governo Meloni (lo sapremo fra un paio di settimane), resta sempre più evoluta di noi su certe cose, specie quando riguardano le donne. Non mi riferisco all’inserimento nella Costituzione transalpina del diritto all’aborto (anche se ci sarebbe tanto, ma proprio tanto da dire, considerato che da questa parte delle Alpi si dice di non voler toccare la legge 194 ma si incoraggiano nei fatti l’obiezione di coscienza e l’intrusione dei movimenti pro-vita, quando l’unico modo accertato per incoraggiare la natalità è aumentare i servizi alla famiglia e l’occupazione femminile). Parlo della nuova campagna per la sicurezza stradale lanciata dal governo francese, con un motto che da noi farebbe scandalo: «Guidate come una donna». Tutte le ricerche confermano da anni e anni che le donne al volante non sono un pericolo costante, anzi, è esattamente il contrario. Il pericolo costante sono gli uomini, che troppo spesso vivono la guida in senso esibizionistico e competitivo, sono allergici ai limiti di velocità e trascurano le più elementari norme di prudenza, mettendosi in strada troppo stanchi o intontiti dall’alcol, o quando il meteo consiglierebbe di rimandare

Anzi ci si mette pure palazzo Chigi a far saltare la circolazione ferroviaria pugliese le gite sui convogli storici offerte alle first lady del G7 di Borgo Egnazia

Non so se si tratta di una strategia di comunicazione con cui palazzo Chigi vuole dimostrare con i fatti di avere preso le distanze dal fascismo. Fatto sta che mai come in questo periodo in Italia i treni arrivano in ritardo. Dall’umile regionale al Frecciarossa, non si salva nessun convoglio, e non si tratta quasi mai di manciate di minuti, ma di botte dalla mezz’ora in su. Altro che l’esplicito riferimento alle «squadracce fasciste» responsabili del delitto Matteotti: la più lampante testimonianza del ripudio da parte di Giorgia Meloni dell’eredità mussoliniana è la completa imprevedibilità degli orari di partenza e di arrivo dei treni. Non esistono più le coincidenze, ma solo le pure coincidenze, nel senso che se riesci a scendere dal treno precedente in tempo per salire su quello successivo è una mera casualità, uno scherzo benevolo del destino. I motivi dei ritardi, così come ci vengono annunciati in italiano e in inglese dall’altoparlante, sono i più vari: solo la categoria «guasti» può declinarsi in almeno una dozzina di varianti, come pure «l’intervento dell’autorità giudiziaria», espressione che può sottintendere vari tipi di disgrazie. Gli annunci del primo tipo vengono accolti dai passeggeri per lo più con gemiti rassegnati o ululati di

E quali partiti sovranisti oggi dicono ìdi voler uscire dall'euro?

Io me le ricordo ancora, le prime elezioni europee. Era il periodo del mio esame di terza media, e credo che una delle tracce proposte – allora si chiamavano ancora temi – fosse proprio dedicata allo storico evento che fra il 7 e il 10 giugno avrebbe portato alle urne i nove paesi della Cee, la Comunità economica europea. A guardarla oggi sembra minuscola e tutta sbilanciata a Occidente: si fermava a metà Germania, mancavano non solo tutti i Paesi dell’ex blocco comunista, ma anche l’Austria, la Spagna e la Grecia, e l’unico paese scandinavo era la Danimarca. Insomma, praticamente era il cast di Giochi senza frontiere, senza la Svizzera. Forse era proprio l’imprinting dell’adorata trasmissione estiva, in cui le squadre dei vari paesi si sfidavano in allegria fra tuffi e pagliacciate, a rendere elettrizzante anche quel primo voto europeo, al quale non potevo partecipare per motivi d’età. Ma al secondo appuntamento, il 17 giugno 1984, c’ero anch’io, finalmente maggiorenne, e non potevo immaginare un battesimo dell’urna più emozionante, per motivi opposti: erano le prime elezioni senza Enrico Berlinguer, morto la settimana prima durante un comizio, e ci fu il clamoroso (e inutile, all’atto pratico) sorpasso del Pci sulla Dc. La tornata

Ormai le interazioni fra i politici sono regredite al cortile di una scuola elementare particolarmente mal frequentata

Donne, siate sincere. Quali sensazioni vi ha procurato il “sono qualla stronza della Meloni” con cui la premier ha salutato il governatore della Campania De Luca a Caivano? Su, avanti. Se avete genuinamente disapprovato, siete ammirevoli. La vostra posizione è la più giusta, corretta e civile. A parte l’improprietà del turpiloquio rivolto in pubblico dalla presidente del Consiglio a un rappresentante delle istituzioni – vabbè, si trattava di una citazione dello stesso Vincenzo De Luca, che però aveva indirizzato l’epiteto alla premier in una conversazione privata -, l’occasione era la meno indicata: l’inaugurazione del centro sportivo che dovrà riqualificare, socialmente e moralmente, la degradata zona di Caivano, uno dei comuni più invivibili del Napoletano, teatro di disgustosi fatti di cronaca. Le parolacce e soprattutto la ripicca, prodotto fastidioso ma incruento dello stesso impulso che genera la faida e la vendetta, dovevano essere tenuti alla larga. Sarebbe stato più in tema con lo spirito della cerimonia mettere da parte le vecchie ruggini, e se Meloni si era legata al dito qualche torto ricevuto, scioglierlo in un sorriso pacificatore. E invece no. Volendo usare un’altra metafora abusata, quella del sassolino, possiamo dire che la premier non solo se l’è tolto dalla scarpa, ma

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