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Quando ogni via aveva la sua e già dalla metà di febbraio si iniziava a raccogliere la legna che avrebbe dovuto ardere nella notte di san Giuseppe

Ogni anno all’appressarsi dell’equinozio di primavera, vivo nell’attesa di un’improbabile ierofanìa e mi trovo, nella notte del 18 marzo a vagolare da borgo a borgo nella speranza di imbattermi in una di quelle colossali “fogheracce” che, nella mia fanciullezza rappresentavano l’appuntamento più importante dell’intero calendario. Già dalla metà di febbraio si iniziava a raccogliere e ad accatastare la legna che avrebbe dovuto ardere nella notte di san Giuseppe. Raggruppati in schiere, noi bambini, effettuavamo pellegrinaggi per giardini abbandonati e disfatti, penetravamo nei muffosi cortili, violavamo le recinzioni di poveri orti suburbani, ci immergevamo dentro intricati canneti, ci avventuravamo nei profondi fondachi ed maleodoranti cantine alla ricerca di strumenti scassati, mobili dismessi, vecchie riviste, traversine ferroviarie, potature di salici, copertoni di camion e quant’altro potesse prender fuoco o quantomeno sprigionare fumo. Per giorni e giorni la “cerca” continuava minuziosa nella squallidezza degli immondezzai o nella solitudine della splendente battigia col vento tramontanino che scarruffava un ancor gelido mare. Ovunque, in ogni crocicchio o in anguste piazzette l’architettura pencolante della “fogheraccia” si ergeva sempre più  alta quasi a voler sfidare l’ordinamento cosmico: per una volta gli uomini, che faticavano durante l’intera loro vita sulla avara terra, sfidavano, onorandoli, gli dei abitatori dei

La giovane Lilith Miserocchi salvata in tribunale dal medico Adamh Levi-Menendez

Il dottor Adamh Levi-Menendez, nacque, presumibilmente intorno al 1630 a Salamanca. La data e il luogo di nascita sono controversi. Amador de los Rios ed Anastasio Chinchilla, storici della medicina, nelle loro opere: Historia de la medicina espanola e Annales Historicos, sostenevano che Levi-Menendez, medico stimato, fosse, in un primo tempo, passato dall'ebraismo al cristianesimo ed in seguito, in Italia, fosse tornato a riconvertirsi alla fede di Isacco. A Venezia, in casa del rabbino Geremia Zernitz, nel Ghetto Vecchio, sfogliando un volume della monumentale: Biblioteca Magna Rabbinica, ed. 1683, mi capitò di leggere: Adamh Levi-Menendez, progenie iudaeus ex ijs qui olim fidem Christi susceperant, postea abnegarunt. A Secchiano, nello studio del pittore Mirro Antonini, (credo fosse il 1972 o 73) mi cadde sott'occhio il diario tenuto in passato da un frate francescano, tal fratello Serafino da Verucchio, nel quale, tra notizie minuziose di bassa quotidianità, nelle quali raramente, lo scrivente, sorpassava la schematica esposizione dei fatti della giornata, c'era un accenno, per l'anno 1666, all'opera umanitaria, svolta in favore dei malati poveri della città di Rimini, dal dottor Levi-Menendez, "giudio espagnolo doctissimus et multo pio nello hanimo". Gli anni che il dottor Levi-Menendez trascorse a Rimini, non dovettero essere particolarmente felici.

Goliardo impenitente e mai laureato, centauro e pilota automobilistico perfino nella terribile Carrera Panamericana

Nella antichità immaginazione e sogno erano sinonimi: opinione e apparenza. Ludovico Ariosto immaginava che la luna fosse il luogo dove accatastati stessero i sospiri degli innamorati, le preghiere mai esaudite,  “i vani disegni che non han mai loco”, le fantasticherie e, nello stesso tempo, le apparenze, i desideri, le velleità abortite. Amleto stesso confessava: “And my immaginations are as foul as Vulcan stithy” (fantasie laide come la grotta di Vulcano). Veramente, allorché il sentimento fantastico diviene incontrollato, è facile che chi ne è affetto venga trasportato nell’infinito e difficilmente possa ritornare in se stesso. Ceredi Libero Giorgio (così si presentava, prima il cognome e successivamente il nome), era un cesenate benestante, nato nei primi anni Venti del secolo scorso, che per tutto il corso della sua, non breve, esistenza, null’altro ha fatto se non rincorrere chimere con un protervio senso alterità, attingendo costantemente da un cospicuo patrimonio familiare, evitando accuratamente qualsivoglia ambascia o accenno di dolore. Valeva, per lui, l’affermazione dello scrittore ceco Orten: “Sbagliare eternamente, fino a diventare puri”.  Prese la maturità classica al Liceo di San Marino, seguendo un percorso irrequieto, tra numeri eccentrici, affatturato com’era, fin dalla prima giovinezza, dalle più pazze intramesse e dalla deboscia più

Anna Pavlovna sedotta da Martinini, il calcio di punizione che mutilò Toneatto, l'atterraggio di Moratelli nella piscina del Rex

Come e perché nascono i miti? Il mito è l’esistenzializzazione di una metafora. Travalica l’immagine, si spinge oltre l’evento. In questa maniera si adultera l’essenza della parola, che è di condensare una conoscenza e non di esibire la cosa in concreto. In cosa differisce la bugia (quella epica, strabiliante, memorabile, fantastica) dal mito? La bugia, allorché è fine a se stessa, possiede una proprietà anagogica, ossia la capacità di elevare situazioni normali (meglio se mai accadute) alla sfera altissima della fantasia e dell’irreale. Rimini, che per secoli si è arrovellata tra gli spasimi, tra le contorsioni dialettiche per contrastare la miseria che ha sempre dimorato sulla foce del Marecchia, ha prodotto una marea di sottigliezze, di vertigini, tanto da generare una demenza analitica, tanto più cavillosa quanto più menzognera. Di bugiardi a Rimini ne sono passati a migliaia, con la loro tensione narrativa continuamente alimentata da una logopatia, a volte simpatica, altre volte talmente assurda che per misurarla sarebbero necessitate specole da capogiro. Vado a ritroso nel tempo. Cosa ci facesse Mario Martinini nella tipografia di mio padre non l’ho mai saputo. Il suo lavoro era stato quello di macchinista in teatro. Aveva attraversato l’Atlantico un’infinità di volte. Aveva allestito

Fra il bar di Quarto e Quinto Pasini e la Capannina, dove capitavano Francis Turatello e (forse) una delle Kessler

Gli anni sessanta, fanno entrare nelle case il secondo canale TV. Lo annuncia, a tre milioni di abbonati, una sorridente e compita Annamaria Gambineri. E' il momento del Da-da-umpa. Le gemelle Kessler, con le chilometriche gambe ricoperte da monacali mutandoni neri, sconvolgono l'immaginario erotico dei maschi italioti. Il "compagno" Giorgio Amendola, celebrando il centenario dell'unita' d'Italia, annuncia che "mai, in questo paese si è stati così bene". Trionfa il Cantagiro. "La pubertà è assurta a mito", sentenzia un giovane professore di Alessandria, dal nome che è tutto un programma. Ne risentiremo parlare. Il ballo imperante è il twist. Una danza carica di sottintesi sessuali. Originari di Liverpool, quattro ragazzotti che suonano e cantano, al loro apparire al Palladium di Londra, mandano in tilt l'intero paese. I Beatles, appunto. "Nessuno mi può giudicare", canta Caterina Caselli. Purtroppo, non è così per "Mondino" Fabbri da Castelbolognese, commissario "tecnico" (come diceva lui) della nazionale italiana di calcio, il quale, subendo, a Middlesbrough, il 19 luglio 1966, l'eliminazione dai Campionati Mondiali, ad opera della Corea del Nord, sarà costretto ad affrontare mille processi e confermerà, una volta di più, se ce ne fosse bisogno, l'assunto di ser Niccolò: "Che se tu fiderai nelli italiani,

E prima del "Trofeo Longines" il fascinoso Jaquot era al Paradiso alla corte dell’incomparabile Ivo Del Bianco fra whisky e belle donne

Il 23 agosto 1959, era una domenica, si correva a Rimini il “Trofeo Longines”, una prova a cronometro a squadre. Teatro di gara il Lungomare. La distanza complessiva era stata fissata in Km.31,486 (un circuito di 4500 metri da percorrere sette volte). Il pubblico numeroso si accalcava alle transenne. Lo spettacolo non mancava sicuramente, ma la stampa sportiva del tempo non fu, in quell’occasione, tenera con gli organizzatori (il Pedale Riminese presieduto da Alfredo Masinelli). Il quotidiano “Stadio” scrisse: “Troppo breve la distanza, troppo complicata la formula (batterie, finali dei primi e dei battuti), troppo esiguo il distacco tra le pattuglie ed assurdo il regolamento”. [caption id="attachment_435740" align="aligncenter" width="585"] Rik Van Looy vincitore di tappa e prima Maglia Rosa del 42° Giro d'Italia dle 1959, alla sua destra Gino Bartali[/caption] Erano presenti i migliori specialisti delle gare contro il tempo. Ogni squadra era composta di cinque corridori. Si presentavano al via tre quintetti d’oltralpe: la “Heliett-Leroux”, guidata da Jaques Anquetil, la “Bobet BP” con a capo Luison Bobet e la “Raphael- Geminiani” del giovane Roger Rivière. L’Italia confidava nello squadrone della “Ignis” che aveva in Ercole Baldini il suo uomo di punta e nella compagine dell’“Emi” il cui leader era Aldo Moser. C’era

Primario dell'Ospedalino e collaboratore di Margherita Zoebeli all'Asilo Svizzero CEIS

Ripropongo (in parte) un ricordo del prof. Ugo Gobbi, scritto dalla nipote Beatrice Sica apparso su Il bollettino dell’Archivio “G. Pinelli”. Ugo Gobbi è stato il “pediatra anarchico” di Rimini. Medico dalle notevolissime capacità diagnostiche, ha contribuito allo sviluppo e all’eccellenza della pediatria romagnola nella seconda metà del Novecento, soprattutto come primario del cosiddetto Ospedalino (Ospedale dei Bambini) della sua città, che diresse dal 1952 al 1974, e successivamente della Pediatria dell’Ospedale provinciale di Fano dal 1974 al 1986. Il suo incontro con l’anarchismo avviene quando è studente di Medicina e poi specializzando in Pediatria a Bologna, negli anni dal 1939 al 1947; allora diventa amico dei giovani anarchici Carlo Doglio e Tonino Scalorbi e conosce gli anziani del movimento come Mammolo Zamboni, Armando Borghi e Pio Turroni. Insieme a loro, soprattutto tra il 1945 e il 1947, si riuniva, teneva conferenze…organizzava contraddittori. Rientrato a Rimini nel 1947, dopo aver ottenuto la specializzazione, Gobbi viene a contatto con il CEIS (Centro educativo italo svizzero), sorto l’anno precedente… Diretto da Margherita Zoebeli, giunta appositamente da Zurigo, il CEIS si caratterizza come organizzazione socio educativa laica e diventerà un centro d’avanguardia in campo pedagogico… Gobbi collabora prestando servizio, sempre a titolo gratuito, prima

La carriera del boxeur di Bellariva, un campione schivo e generoso

Sempre di più m'accorgo che la memoria è impotente a riconquistare entusiasmi passati, a ricreare le forti, stordenti emozioni che le riunioni pugilistiche degli anni sessanta mi sapevano donare. L'implacabile durezza di certi combattimenti, i volti segnati dei vecchi boxeurs, il pittoresco, infiammato linguaggio degli aficionados, la voce di Sergio Gaddi che, attraverso il microfono sapeva creare un transfert con l'imponderabilità della mitologia, le atmosfere fumose, la tautologia dell'oggettistica, il cerimoniale rigido ed ingenuo, li leggo esclusivamente come elementi familiari della mia giovinezza, per rivivere la felicità dei quali, nessuna medicina, purtroppo, si rivela efficace. Della numerosissima stirpe di pugili che Rimini ha prodotto, partendo da Edelweiss Rodriguez per arrivare ai fratelli Stecca, Luciano Lugli, è stato certamente il campione più schivo, il più restio a concedersi, il più abile nel dileguarsi, il più attento ad innalzare argini a protezione del proprio spazio esistenziale. Pur di salvaguardare la naturale riservatezza, a Luciano Lugli, non importava di venire considerato, scostante, orso, selvatico. Valeva per questo ex atleta il motto che Leonardo da Vinci s'era creato a proprio uso e consumo: "Salvatico è quel che si salva". Il luogo comune, duro a morire, che vuole il vecchio pugilista ilare, sprovveduto, garrulo, viene

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