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"Se vuoi farti dei nemici prova a cambiare qualcosa". I riminesi sono gente bellissima. Io, che lo sono, li adoro. Siamo fatti così, un nugolo di contraddizioni, geniali e antichi, moderni, attaccati alle radici ma quasi tutti - in parte o del tutto - immigrati di prima seconda o terza generazione. Qualcuno venuto giù con le piene del Marecchia: io con quelli del Montefeltro, figlio di una cremonese e di un carabiniere di Monte Cerignone. Per questo probabilmente ci sentiamo attaccati ad ogni sasso della nostra città. Città praticamente morta e risorta dopo la guerra, distrutta e ricostruita. Quello che ci rimane, l'abbiamo demolito con le nostre mani: nascondendo, cancellandolo come il Kursaal, dimenticandocelo nei lavori della ricostruzione: dove c'è Palazzo Fabbri e dove è nato il Palazzetto dello Sport abbiamo probabilmente distrutto le radici della nostra città non più tardi entro gli anni '70. Anche noi però siamo vittime del peccato originale italiano: la sacralizzazione del territorio. Forse un complesso di inferiorità, forse una cattiva comprensione della realtà delle cose. Talvolta viviamo tra i relitti di una civiltà magnifica come quella romana quasi come estranei. Il Ponte di Tiberio, l'Arcod'Augusto, manufatti di una civiltà aliena e incomprensibile, strumenti magnifici (e lo sono) e quindi intoccabili: