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Se ho capito bene, i patiti di astrologia sostengono che il saper convivere con la contraddizione rappresenti un'attitudine zodiacale del segno dei Pesci. Sia come sia, per una di quelle forme di “sdoppiamento interiore” che non mi sono nuove, in questi giorni – vedi l'articolo precedente – mi capita spesso di ingaggiare animate discussioni politiche con me stesso

Riporto un vivace battibecco svoltosi mentre la TV trasmetteva la seduta della Camera sulla fiducia al Governo PD-M5S Interlocutore A (sarcastico-incazzato): «E io che mi illudevo fosse soltanto un brutto sogno, destinato a finire in quattro e quattro otto! Di quelli che al risveglio ti provocano prima un liberatorio sospiro di sollievo, poi il dubbio se all'origine di quell'incubo vi sia Freud o la cofana di trippa al sugo che ti eri fatta fuori a cena, infine la voglia di metterti a cantare 'Volare' di Modugno: “Penso che un sogno così non ritorni mai più”

Nella sua bellissima intervista a “La Stampa” di venerdì, ad un certo punto Papa Francesco afferma: «Sono preoccupato perché sento dei discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934: “Prima noi. Noi, noi”. Sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura

Le “meteo-preghiere” contro il Pride. Confagricoltura, Coldiretti e CIA hanno finalmente trovato il modo di sconfiggere la sempre più frequente siccità estiva. Basterebbe che ingaggiassero la tenebrosa congrega che la mattina di sabato 27 s'è esibita in una mini-passeggiata in centro «per riparare l'offesa» che di lì a poco avrebbero arrecato alle alte sfere celesti gli «sventurati che parteciperanno alla malaugurata iniziativa» del “Rimini Summer Pride”, la quale «non può non contribuire al degrado morale della città», e giù un contorno di altisonanti espressioni di fede, nonché di speranza nella redenzione di quanti quel pomeriggio si sarebbero macchiati di «atti contro natura». Avevano invitato «tutti gli uomini di buona volontà» (le donne a casa, a fare la calzetta) al loro macho-raduno, pubblicizzato come una processione per il lavaggio del «peccaminoso scandalo», capeggiata da pretoni coi sottanoni lefebvriani, che quando sentono nominare Papa Francesco si fanno il segno della croce non per devozione, ma con l'aggiunta di un “vade retro” fra i denti. L'occulta intenzione di quell'assembramento, in apparenza pio, era però un'altra, più “carognesca”: una sorta di primitiva “danza della pioggia” affinché, più che la forza della fede, fosse quella di un gigantesco temporale a mandare a monte il “Summer Pride”. Pare che

Alle “molestie televisive” che da una anno a questa parte mi procurano i telegiornali Rai, da alcune sere s'è aggiunto un ulteriore motivo di fastidio. I tre minuti di immancabile redazionale “laudativo” sono seguiti, come noto, dalle registrazioni audio-video di Salvini, del suo vice Di Maio e del maggiordomo che a Palazzo Chigi è al loro servizio. Il rituale, che si ripete pari-pari ogni volta, prevede l'iniziale toccata e fuga – un minuto e mezzo – di Conte, nei panni del “buttafuori” che al tempo dei comizi in piazza saliva per primo sul palco ancora vuoto, a scandire: “Uno, due, tre, prova microfono. Ah, ah, ah, si sente laggiù in fondo?” Dopodiché è il turno del cicisbeo grillino, che per ulteriori tre minuti e mezzo ripete a memoria e con buona dizione la quotidiana pappardella preparatagli da Casaleggio o da Casalino. Dulcis in fundo, ecco i sette minuti a disposizione di Salvini, l'effettivo capo del Governo. E così mezzo Tg se n'è bell'e andato. Mentre fino a poco tempo fa i volgari e paranoici sproloqui del triviale tenutario di Palazzo del Viminale colpivano solo me, da un paio di settimane il loro effetto sta riversandosi pure sul mio gatto Pri – non significa repubblicano, ma

È proprio vero: d'estate Rimini non si fa mancare niente. Quasi in concomitanza con la celebre rassegna gastronomica “Al mèni”, s'è svolta a giugno anche “Ac testi!” (traduzione per gli immigrati legaioli che siedono in Consiglio Comunale: “Che teste!”). Una manifestazione in due fasi, pensata per far conoscere il “risotto alla patacagine”, gli “involtini di sciapità” e lo “sformato di superstizione”, i piatti forti della rinomata “Osteria del cocalone”. Perché non creare anche il Comune di San Martino in Riparotta? Teatro della prima fase un bar di Santa Giustina, dove si son dati convegno venti raffinati pensatori, che fra un caffè, due bestemmie, un sorso di Campari e – dice qualcuno – una pletora di lodi al tronfio figuro che tracima di spregevole arroganza al Viminale, hanno preso l'impegno di organizzare indovinate cosa? Una briscola e tressette? Una gita in montagna? Una seratina osè, di nascosto dalle mogli? Quando mai! Loro hanno gettato le basi per creare il Comune autonomo di Santa Giustina, mediante la secessione da Rimini, che sarà incruenta solo se Gnassi farà presto ad arrendersi, uscendo dal municipio a mani alzate. Li capeggia un fioraio del luogo, mentre non è chiaro se sia dei loro anche il grande e amato leader Pino

Nel novembre del 1966, quando diciottenne mi iscrissi alla Federazione Giovanile Comunista, Primo Ghirardelli, di sei anni più grande e già un affermato dirigente riminese, era considerato “il giovane talento” della Segreteria del PCI, allora diretta da Checco Alici, cui sarebbe subentrato di lì a poco Zeno Zaffagnini. Tre mesi dopo, allorché Giorgio Giovagnoli subentrò come segretario della FGCI a Loris Soldati partito per il servizio militare e io divenni inaspettatamente il suo vice, fu quasi naturale che Giorgio e Primo diventassero per me una sorta di fratelli maggiori, disposti ad accogliere pazientemente le mie ansie di “parvenu” che si sforzava di non apparire tale. Primo avrebbe poi continuato a garantirmi quel generoso “ruolo fraterno” anche dopo che Giorgio interruppe la quotidiana sua presenza in sede, avendo intrapreso in Municipio quella brillante “strada professionale” per la quale è ancor oggi ricordato e apprezzato. Mi è davvero difficile dipanare il doloroso marasma di ricordi, emozioni e rimpianti in cui mi sento immerso fin dal momento in cui ho avuto la triste notizia che Primo non è più fra noi. Altri si impegneranno a raccontarci il suo percorso politico, i suoi meriti, i suoi successi e le sue delusioni, che pure non sono mancate. Ma

Venerdì scorso, “spatacando” col telecomando, mi sono ritrovato su “La Nove” proprio mentre stava iniziando “Belve”, una trasmissione di interviste a donne “che ce l'hanno fatta” a primeggiare. L'ospite che la bravissima Francesca Fagnani si apprestava a intervistare era Maria Giovanna Maglie, la sfasciacarrozze del giornalismo italiano, la sovranista dal “pensiero sovrappeso” che per stile ricorda un mix tra Salvini e Piercamillo Davigo, mentre come giornalista sembra l'assemblaggio ben riuscito di Feltri, Belpietro e Sallusti. Colei che viene definita, con l'evidente esagerazione di uno dei due aggettivi, «una simpatica stronza» da Giuliano Ferrara, col quale a suo tempo condivise la fuga dal PCI per andare entrambi, dopo una temporanea infatuazione craxiana, a star meglio sotto l'ala di Berlusconi, Bossi e Fini. È per questo che i padroni leghisti della Rai hanno recentemente tentato, senza riuscirci, di affidarle la riedizione di quella “Striscia” a ridosso del Tg che fu un capolavoro giornalistico del loro nemico Enzo Biagi, del quale intendevano così insultare la memoria. Ad un certo punto l'intervistatrice chiede alla Maglie se abbia qualcosa di cui pentirsi o chiedere scusa, ottenendo come risposta un gran “invrucchiamento” di parole che sottintende un sostanziale no. Se fosse stata una di quelle trasmissioni in cui è

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