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Avete presente quelle creaturine simpatiche e pucciose che sembrano uscite da un cartone animato per bambini o dalle ceste dei peluche degli asili nido, con gli occhietti furbetti, il musino irresistibile e una coda birichina, che all’inizio ti fanno sdilinquire di tenerezza ma quando te li metti in casa te la distruggono in mezza giornata, per non parlare della puzza devastante? Lo pseudo cucciolo esotico adottato in vacanza da turisti incauti, che al ritorno gli ammazza il gatto e distrugge l’arredamento, finché il veterinario rivela che si tratta di un ferocissimo ratto oppure di un diavolo della Tasmania, è un classico delle leggende metropolitane. In realtà è l’adattamento miniaturizzato e domestico di eventi realmente avvenuti. L’introduzione di specie animali esotiche in un ecosistema in cui non erano previste ha causato vere e proprie catastrofi: l’esempio più famoso è la piaga dei conigli in Australia. Nel 1859 un allevatore lascia liberi nel bush dodici coniglietti selvatici perché i gentiluomini britannici possano dedicarsi alla caccia, come nella brughiera dell’Inghilterra nativa. Dove però ci sono volpi, parassiti e inverni freddi che tengono sotto controllo la proliferazione dei roditori; niente di tutto questo esiste agli antipodi. Risultato, dopo dieci anni l’Australia è un’immensa conigliera, e

La storia di questa settimana non è proprio della nostra zona, ma viene dal lembo di Toscana più vicino a noi, la zona di Sansepolcro, ma è così suggestiva che vale la pena di debordare un filino fuori provincia e fuori regione. E’ la storia di suor Maria Teresa, la superiora di un antico monastero, in origine di cappuccini, poi passato alle monache olivetane. Una di quelle religiose giovani e dinamiche che trasformano i conventi in agriturismi dove i laici possono ritemprare corpo e spirito all’insegna dell’«ora et labora» benedettino. Ma succede che suor Maria Teresa si innamora di un uomo, e anche se ormai la relazione è finita, le autorità ecclesiastiche – pare addirittura che dietro ci sia la Santa Sede - non solo la obbligano a lasciare il velo, ma chiudono il monastero, perché ci sono rimaste solo tre suore molto anziane. Dice l’ex superiora che dietro il provvedimento non c’è solo il suo amore terreno, ma altro non rivela. In mancanza di altri dettagli che possano inquadrare la vicenda nello schema “monaca di Monza” (chi era il misterioso lui? Un bravaccio tipo Egidio? O un insospettabile?) non si può non notare che in questi giorni la vita intima delle monache

Bè, questa volta «avanti Savoia» ci sta. Anzi, forse l’uscita sui social di Emanuele Filiberto, “la famiglia reale sta tornando”, è l’unica impresa riuscita a un Savoia negli ultimi cento anni, senza spargimento di sangue. L’impresa non era la restaurazione della monarchia, anche se visti i tempi ci manca solo che tornino in forze i monarchici – abbiamo un altro duce, ci manca solo un altro re – bensì il lancio di una linea di abbigliamento chiamata House of Savoy, che ricicla stemmi e insegne della dinastia e dell’esercito sabaudo su cappellini e giubbotti. Il principe ballerino ci ha fregato tutti, con quella breve clip in cui, seduto a una scrivania di regale imponenza, con foto di famiglia sullo sfondo e una luce dorata che gli danzava fra i biondi capelli, annunciava “il ritorno della famiglia reale”, la sola in grado di riportare la serietà e l’eleganza di cui c’è tanto bisogno. Un discorso così composto, serio e pertinente che non solo ti veniva da credergli, ma, sotto sotto, perfino da apprezzarlo. Chi può negare che oggi come oggi in Italia ci sia un disperato bisogno di serietà ed eleganza, nel senso più ampio della parola? D’accordo, Emanuele Filiberto non è il principe

Non dev’essere facile fare il sindaco di Predappio, a qualunque partito si appartenga. Voglio dire, tutti i paesi della Romagna hanno qualche specialità, in genere simpatica: Brisighella ha l’olio e i frustatori, Bertinoro ha la colonna dell’ospitalità e il vino, Sarsina ha san Vicinio, Plauto e la pagnotta, Forlimpopoli ha Artusi, Marradi ha le castagne, Gambettola ha la Tecnogym, Savignano ha il Rubicone, anche se oggi si mette in dubbio che quello sia stato davvero il fatale fiume di Cesare. Predappio è famosa per una cosa sola. E molto imbarazzante, per la maggior parte della gente civile. Eppure quella cosa lì è un volano per l’economia locale, e non si può sputare nel piatto in cui si mangia. E’ un problema analogo a quello di Las Vegas: se metti al bando gioco d’azzardo e prostituzione la città va in malora. E pure Predappio, se gli togli il business intorno alla Buonanima, che gli resta? Il vero problema è che lui, il mortaccione che riposa nella cripta del cimitero di San Cassiano, il vero primo cittadino di Predappio. L'inquilino di palazzo Varano, che sia di destra o di sinistra, è solo un facente funzione, un plenipotenziario, un vice. Più si è sdoganato il

«Di te perdant, ut etiam in sepulchro excruciatus sis»: che gli dei ti maledicano, perché tu soffra anche nella tomba. E’ una celebre maledizione sepolcrale latina contro i violatori di tombe, e forse andrebbe riproposta nei cimiteri moderni bersagliati da furti e vandalismi quanto le necropoli antiche. Non si salva nulla, dai fiori freschi o artificiali che vengono prelevati dalle lapidi, ai vasi di rame che le contengono. Si rubano perfino i pupazzetti lasciati sulla tomba di un bambino, com’è successo qualche giorno fa proprio al cimitero di Rimini, con ulteriore strazio della povera mamma. Sarebbe stato bello che i calcinacci che si sono staccati dalla tettoia fossero caduti in testa al profanatore senza cuore. Ma dov’è Stephen King, quando serve? Nei romanzi e nei film horror i morti sono permalosissimi, guai a torcergli un capello. Se costruisci la casa dove secoli prima hanno seppellito un indiano, te lo ritrovi in giro per casa con un tomahawk insanguinato, mummie egizie disturbate nel sonno si svegliano e fanno sfracelli, fai lo spiritoso sulla tomba di uno sconosciuto e il giorno dopo il suo scheletro si autoinvita al tuo matrimonio. Nella realtà invece i trapassati sono più tolleranti e nonviolenti del Mahatma Gandhi, sopportano di tutto

Sono così vecchia che quando ero piccola io il cioccolato faceva male. Anzi, forse era la cosa che a noi bambini, secondo le mamme e i dottori, faceva più male in assoluto. Anche più delle caramelle, che avevano l’attenuante di contenere qualche atomo di frutta. Era accusato di provocare una vasta gamma di disturbi, fra cui bruciori, eczemi, allergie, diarrea, stitichezza e mal di pancia assortiti. C’era un solo modo per redimerlo: mescolarlo con il latte, l’alimento salutare per eccellenza, tanto bianco e innocente quanto il cioccolato è scuro e poco raccomandabile. Quindi vai di cioccolato al latte, meglio ancora se cioccolato bianco, oppure le barrette “più latte meno cacao”, cioè un sottile rivestimento marroncino intorno a un ripieno biancastro. Come se il problema del cacao fosse soprattutto la nuance di colore, come fra gli schiavi afroamericani del vecchio Sud, che più erano chiari (quindi mescolati con i bianchi) più valevano sul mercato. Il cioccolato fondente, duro, amaro, era un gusto adulto, appena un po’ meno peccaminoso dell’alcool. Sembra incredibile a pensarci adesso che il «cibo degli dei» (così lo chiamavano gli aztechi) è considerato da un lato una specie di elisir di lunga vita, quasi un integratore alimentare, dall’altro un antidepressivo

I ricchi possono dormire tranquilli. In Paradiso ci entreranno senza problemi, anzi, probabilmente san Pietro ha già parecchie difficoltà a smistare la ressa di miliardari che premono ai cancelli. Dicevano le Scritture che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco acceda al regno dei cieli – ma che possiamo sapere noi dell’effettiva difficoltà che incontra il cammello nel transitare attraverso la cruna? Non so voi ma io credo di non aver mai visto un cammello dal vivo in tutta la mia vita, e anche se dovesse essermi successo probabilmente non avrei avuto sottomano l’ago per fare la prova. Ma qui a Rimini assisto tutti i giorni a una prova estrema, rispetto alla quale il passaggio della cruna è una bazzecola: il passaggio del tir nella stradina del centro storico. Le proporzioni sono più o meno le stesse, abbiamo un gigantesco oggetto semovente che ha deciso di intrufolare la sua mole cospicua in altezza e in larghezza in un pertugio ridicolmente stretto, ostruendolo quasi completamente. La differenza è che almeno il cammello, all’uscita della cruna, non deve curvare per infilarsi in un’altra cruna, mentre il Tir deve o dovrebbe piegarsi come un contorsionista per

San Gaudenzo, vescovo, martire e patrono di Rimini che si festeggia domani, ha questa interessante e significativa caratteristica: non fu giustiziato dai soliti paganacci romani perché si rifiutava di adorare gli dei falsi e bugiardi, ma venne trucidato da altri cristiani, ancorché eretici, il 14 ottobre del 360 d. C. In quel periodo era in corso una specie di sanguinoso derby fra correligionari, divisi fra ortodossi e ariani, gli uni convinti che Dio e Gesù fossero consustanziali, gli altri che il Figlio fosse di natura divina ma inferiore a quella del Padre. Ci si sbudellava, in senso letterale, per (a noi) incomprensibili sottigliezze teologiche, con una ferocia che doveva lasciare esterrefatti i pochi pagani non ancora massacrati o convertiti a forza. L’arianesimo era preponderante in Oriente, e Rimini, affacciata sull’Adriatico, era un vero e proprio ricettacolo di eretici: Gaudenzo, ortodosso ma orientale in quanto nativo Efeso, era stato inviato a Rimini da papa Silvestro, custode dell’ortodossia, proprio per sgominarli, un po’ come lo sceriffo tosto inviato nella città del Far West dove i banditi dettano legge. Sfortunatamente, gli ariani furono più veloci: un giorno di ottobre gli saltarono addosso, lo ammazzarono a sassate e bastonate e gettarono il corpo in uno stagno. Pare

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